“Vedo l’incidente al rallentatore. Potrei descrivere nei minimi particolari tutte le possibili versioni della catastrofe, anche di quello potrei farne un romanzo. Un libro costruito intorno al fatto di cronaca riprendendolo ogni volta dal principio, come in quegli incubi in cui nuoti controcorrente, i piedi attaccati all’argine con un elastico. Quello che lui ha taciuto, quello che lui ha detto. L’odore dell’auto e il rumore del motore. Il gioco dei corpi e le proiezioni della psiche. Quel bagliore improvviso, la paura, gli urli e il grande silenzio che ne è seguito. Mi ricorderei le ultime parole di d’Artagnan in quel romanzo che mio padre aveva appena finito quando ha incontrato Sunsiaré: «Non ci sono che le strade, per calmare la vita».
Con La Regina del silenzio (trad. Fabrizio Di Majo, Edizioni Clichy) Marie Nimier si chiede come riappacificarsi col proprio passato, con l’assenza paterna, con un lutto mai del tutto elaborato, attraverso il tentativo in chiave narrativa di attuare un distacco per prendere coscienza di sé, emanciparsi dalla propria storia, scrutare suo padre. Il titolo deriva dall’appellativo risalente ai primi anni scolastici che riporta a un tempo incerto, segnato da omissioni e dolorose incognite. Quando suo padre muore in un incidente stradale alle porte di Parigi a bordo della sua Aston Martin in compagnia della scrittrice Sunsiaré de Larcône, Marie ha cinque anni, apprende la notizia rendendosi conto solo dalle lacrime altrui che si tratta di un evento irreparabile. Piange il dolore di sua madre, piange la scomparsa di un uomo perennemente altrove, da tempo separato da sua moglie.
Divenuta una scrittrice affermata, insignita del prestigioso Prix de l’Académie Française, autrice di romanzi, sceneggiature, canzoni, drammi teatrali, Marie Nimier sente di dover fare i conti con quella perdita infantile. Convinta di non avere ricordi, oltre a traumi sommersi, raduna dichiarazioni di amici e conoscenti, prova invano a mettersi in contatto con l’orfano di Sunsiaré sentendosi affine alla solitudine di un bambino trattato come un adulto, evoca le rivelazioni di sua madre, cerca tra le parole dei suoi libri, incontra suo fratello. Comprende che per riannodare i fili di un groviglio inestricabile occorre provare a ricostruire il corpo smembrato del padre passando per la sua uccisione ideale.
"Ho trascinato la sua morte come una vecchia pelliccia di coniglio rattoppata, un orsacchiotto molto sporco, di quelli che finiscono nel bucato perché la mamma, per motivi igienici, ha deciso così – ma la mattina il bambino piange perché non riconosce più il suo odore portafortuna, e che sia un odore buono o cattivo, non è quello il problema".
Marie cerca suo padre anche nei libri che lo portarono al successo, provando a cogliere nelle figure opache al centro di Les Enfants tristes, una visione del suo tempo, incapace di impressionarsi per aspetti che all’uscita dell’opera generarono un dibattito, provando ad aggrapparsi alla bellezza dello stile. Cinici e dissoluti, i soggetti di Nimier si muovono tra le rovine di una stagione degradata, priva di reali riferimenti.
Quando smise di scrivere su consiglio di un amico romanziere che vedeva in lui la necessità di una morte e di una resurrezione artistiche, a trent’anni Roger Nimier era ritenuto tra i dieci migliori romanzieri del suo tempo. Iniziò presto a collaborare per giornali con una particolare attenzione per la critica teatrale e cinematografica, per fondare una rivista nei primi anni Cinquanta. Il grande successo arrivò, dopo l’uscita di Les épées, con il romanzo Le hussard bleu, che generò un filone narrativo che evidenziava il debito di Nimier verso Stendhal, Drieu La Rochelle e Céline.
Marie si interroga sul significato della paternità cercando di ricostruire l’immagine di un uomo enigmatico, da cui durante l’adolescenza ha dovuto distaccarsi, per rimarcare una lontananza politica e intellettuale, per poi comprendere i motivi di quella necessità.
"È meglio un padre morto che un padre che minaccia di portarvi via. Di strapparvi a una madre che adorate. Di un padre che sventra i divani. Di un padre che cerca di strangolare sua moglie e poi torna il giorno dopo con un mazzo di rose. O che si taglia le vene in un letto con le lenzuola cambiate di fresco".
Fruga tra i reperti dell’infanzia, scrutando frammenti che le restituiscono la percezione di inadeguatezza, succube dell’intelligenza paterna che subordina i figli a un elemento accessorio che disturba e che distrae. Evoca il ricordo del pranzo preparato per gioco con i cibi di plastica, un uovo fritto e delle verdure, sistemati in un piattino e portati al padre eludendo la sorveglianza della babysitter per varcare la soglia sacra del suo studio. Cacciata, ritrovò poi i resti del “pranzo” nella spazzatura, con un mozzicone fuso nel tuorlo di plastica.
Sulla pagina prende forma il ritratto reale e immaginario di un uomo rimasto estraneo agli altri e a sé stesso. La scelta di convocare idealmente momenti e figure del passato getta nel presente di Marie nuove consapevolezze sulla natura ingrata della memoria – “Le cifre non corrispondono all’immagine di lui che io mi sono costruita” – e sul ruolo salvifico della rimozione. La scoperta impossibilità di assegnare una visione coerente e univoca del padre genera un’acuta riflessione sul rapporto discordante con la storia, sul silenzio attorno agli eventi reali o presunti accaduti a suo padre nelle immagini dell’incidente, sulle allucinazioni collettive, sulla necessità di attribuire un colore alla tragedia, sul dolore di percepire un’indifferenza verso la famiglia dietro la ritrosia a immortalarsi con moglie e figli preferendo posare con personalità illustri.
Compone drammi e visioni per direzionare l’autobiografismo a un livello oggettivo e referenziale e scoprire l’irrilevanza di un bilanciamento tra invenzione e verità nel comporre il tratteggio narrativo di un dolore inestinguibile. Tra continui stacchi temporali emerge l’immagine di una donna in bilico tra le paludi del passato e la necessità di affrancarsi dai limiti dell’ignoto in un continuo cambio di visione. Lo scandaglio della vicenda pubblica e privata di Nimier scrittore, marito, padre, amante, intellettuale, amico, diventa lo strumento d’elezione per esplorare una complessa e dolorosa geografia famigliare, tra violenze, segreti, desideri sopiti, entro legami che proteggevano dal dramma “chiudendolo in un bozzolo” per soffocare “il battito delle sue ali”.
La feroce e drammatica analisi che prende forma nell’opera può compiersi solo condannando e giustiziando il padre, annientandolo per espiarne le colpe e provare a comprendere il proprio rapporto con la fine nella drammatica coincidenza di presagi di morte. Un processo fisico che trova una continua associazione nel corpo, a partire dalla descrizione dello smarrimento infantile di fronte alla precoce esposizione al lutto, paragonata alla caduta in un buco senza fine nella perenne sensazione di galleggiare, sino alla consapevolezza adulta di quel che va al di là della personale capacità di regolare se stessi e il proprio intimo, resa nel fluttuare.
Terreno d’elezione dell’autrice, il corpo diventa nell’opera lo strumento primario di misurazione di un dolore personale, fisico – per la diagnosi infantile di reumatismo articolare acuto – e interiore, nel conflitto con l’immagine fallace del padre, trasposta in senso più ampio in una riflessione sulla storia del corpo in letteratura. Gli oggetti evocano drammi indicibili, segnali di violenze negate. Le insistenze descrittive su un orologio da tasca sonoro, sul pollo arrosto con patate della domenica – con il sotteso ricatto perpetuato da una nonna squisita e feroce, capace però di creare isole rassicuranti e necessarie – , attestano l’oppressione nella prigione dell’infanzia. Nel soffermarsi sulle incognite linguistiche, sulle espressioni d’uso comune, sui proverbi, sui modi di dire legati al corpo umano, Nimier si interroga sulla nozione di impedimento, sul significato e sull’idea del “mantenere”, in relazione al pensiero della sparizione di una persona amata.
Con La Regina del silenzio Marie Nimier compone un elogio dell’incompiutezza, della fallibilità umana, uno studio sulla paura sorda, paralizzante, sull’anarchia del ricordo, sull’oblio dell’insignificanza apparente. L’opera consegna una riflessione sullo scarto tra il tentativo di perseguire un presente personale acquietando i fantasmi del tempo e il confronto con la possibilità del disamore paterno, risolta nell’accettazione dell’assenza, della paura e del dolore come superamento dell’esperienza di “uccidersi per non tradire nessuno”.