Barbarotti e l'autista malinconico
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Libri Moderni

Nesser, Hakan

Barbarotti e l'autista malinconico

Abstract: «Non è giusto che io viva. Sono in molti a pensarlo, e li capisco.» Così scrive nei suoi appunti Albin Runge, ex accademico e autista di pullman, divorato dal senso di colpa e distrutto nello spirito per aver provocato un terribile incidente in cui hanno perso la vita diverse persone. È il 2012, e di lì a poco Runge comincia a ricevere lettere anonime in cui viene minacciato di morte. Seppure scettico decide quindi di rivolgersi alla polizia di Kymlinge. Autunno 2018. I commissari Gunnar Barbarotti ed Eva Backman, non più solo colleghi, ma una coppia anche nella vita, si trovano in licenza sull'isola svedese di Gotland per riprendersi da un fatto tragico in cui sono rimasti coinvolti sul lavoro. Una sera il caso dello sfortunato Runge torna però inaspettatamente d'attualità: possibile che anni prima le indagini avessero fatto un clamoroso buco nell'acqua? Immersi in un paesaggio malinconico e suggestivo che aiuta a sanare le ferite dell'anima, Barbarotti e Backman non possono ignorare il loro istinto di investigatori che li spinge a riflettere sui tanti particolari che non quadravano nella vecchia indagine...


Titolo e contributi: Barbarotti e l'autista malinconico / Hakan Nesser ; traduzione di Carmen Giorgetti Cima

Pubblicazione: Milano : Guanda, 2021

Descrizione fisica: 396 p. ; 22 cm

Serie: Guanda noir

ISBN: 9788823527928

EAN: 9788823527928

Data:2021

Lingua: Italiano (lingua del testo, colonna sonora, ecc.), Svedese (lingua dell'opera originale)

Paese: Italia

Serie: Guanda Noir

Nomi: (Traduttore) (Autore)

Soggetti:

Classi: 839.7374

Dati generali (100)
  • Tipo di data: monografia edita in un solo anno
  • Data di pubblicazione: 2021
Testi (105)
  • Genere: fiction

Sono presenti 5 copie, di cui 0 in prestito.

Biblioteca Collocazione Inventario Stato Prestabilità Rientra
San Miniato, Mario Luzi NAD 839.737 4 NES BAR VI SM038-62224 Su scaffale Disponibile
Pontedera, Giovanni Gronchi GIALLO 839.73 NES bar 0010-83098 Su scaffale Disponibile
Peccioli, Fonte Mazzola G 839.7 NES 0210-9132 Su scaffale Disponibile
Vecchiano 839.7374 NES 10 0170-12532 Su scaffale Disponibile
Calci 839 NESH 4 0200-14121 Su scaffale Disponibile
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Spruzzi e brandelli, 25 ottobre

"Non è giusto che io viva. Sono in molti a pensarlo, e li capisco. A volte la mia fiammella è così debole che mi sembra quasi che potrei mettermi davanti a uno specchio e spegnerla con un semplice soffio. È un pensiero bizzarro, ma è dal giorno dell'incidente che la testa mi fa di questi scherzi. Immagini singolari. Riflessioni confuse. Idee e ragionamenti che non si erano mai presentati prima. Non tutto il tempo, si capisce, ma di tanto in tanto. Specialmente di notte, durante quello sgradevole stato fra il sonno e la veglia. Forse anche nei sogni, ma non ci faccio caso; ho smesso di ricordare che cosa sogno. Una volta non era così, ma dopo che ho incontrato una sfilza di terapeuti e psicologi, l'opinione comune sembra essere che si tratti di fenomeni normali, in seguito a un trauma di una certa importanza.

Che pensieri e percezioni possano mutare in direzioni imprevedibili quando si è rimasti coinvolti in una cosa come quella capitata a me. Che in un certo senso si diventi una persona diversa da quella che si era. Ma questa è una mia conclusione. Ho cominciato a scrivere perché almeno rimanga una spiegazione. Se dovesse succedere qualcosa. Vale a dire la mia spiegazione, il mio racconto. Forse a nessuno interesserà leggerlo, e posso anche essere d'accordo. Mi rendo conto che sia difficile credere alle mie parole, quando cerco di spiegare ciò che succede davvero. Ciò a cui sono esposto. Per il momento ne ho discusso solo con Karin, ma mi accorgo che lei ascolta per compassione, in realtà pensa che siano soltanto fantasie. O in ogni caso che io esageri; ovviamente non può negare l'esistenza delle lettere, è impossibile, ma ritiene che vi stia dando eccessiva importanza. Il mondo è pieno di squinternati che lanciano minacce, ha detto una volta. Se si dovesse dare retta a tutti, si finirebbe per uscire di testa.

In agosto le ho mostrato i due messaggi che avevo ricevuto fino a quel momento. Da allora ne sono arrivati altri due, ma ho evitato di farglieli vedere. Non gliene ho nemmeno parlato. Non voglio che creda che sia sul punto di diventare paranoico. Paranoico e matto. Il nostro rapporto è già abbastanza fragile così com'è. Ma dovrei cominciare dal principio. O in ogni caso riportare indietro la storia di circa un decennio. Sì, farò così, in fondo sono io che decido.

A quei tempi, negli anni a cavallo del secolo, vivevo con la mia prima moglie Viveka in una villetta a schiera alla periferia di Uppsala. Eravamo entrambi universitari, lei teologa, io studioso di storia delle idee; ci eravamo conosciuti durante gli studi e avevamo fatto insieme tutto il percorso. La laurea triennale, la magistrale, il dottorato di ricerca e poi uno di quegli incarichi precari, ognuno presso il proprio istituto. Il mio ancora più precario del suo. Lei la sua tesi di dottorato l'aveva discussa, io non l'avevo mai completata.

Figli non ne avevamo. Viveka era rimasta incinta una volta alla fine degli anni Novanta, ma aveva perso il bambino alla quattordicesima settimana. Poi non aveva più concepito, benché ci provassimo, e uperati i trent'anni, avevamo accettato la situazione. Diventare genitori non rientra nei diritti umani, ne eravamo entrambi ben consci. La mia carriera come studioso di storia delle idee avanzava zoppicando, e dopo un paio di anni io e un altro collega perdemmo il finanziamento per la ricerca che ci aveva tenuti a galla da quando avevo ottenuto il mio incarico all'istituto.

Cercammo altri fondi da tutte le parti possibili e immaginabili, ma alla fine ci arrendemmo. L'unica possibilità che avevo di continuare la mia carriera accademica e terminare la tesi di dottorato era accettare un incarico mal retribuito e a tempo determinato presso l'università di Oslo. Io e Viveka prendemmo davvero in considerazione la possibilità di trasferirci all'estero, ma le probabilità che lei trovasse in Norvegia un lavoro adatto alle sue qualifiche erano più o meno inesistenti. Alla fine decidemmo che mi sarei cercato un impiego al di fuori del mondo accademico. E fu così che finii per diventare autista di pullman.

Vedo che ormai è quasi l'una di notte, ma Karin come di consueto dorme un sonno tranquillo nella nostra camera, per cui continuerò a scrivere ancora un momento. Naturalmente non mi sarei mai sognato di andare a guidare pullman, se non fosse stato per le circostanze. Per le circostanze e per Tommy. Tommy era il fratello maggiore di Viveka, scrivo " era " perché è morto ormai da qualche anno. Ma nel 2002 era ancora vivo e vegeto, e possedeva i due terzi di una florida azienda di autotrasporti di medie dimensioni che operava con pullman sia nei paesi nordici sia saltuariamente nel resto d'Europa.

Tommy aveva sempre disprezzato tanto il mondo accademico quanto l'uomo che sua sorella aveva sposato, vale a dire me. Scherzava spesso su noi " cagainchiostro "; così gli piaceva chiamare la gente che svolgeva lavori di concetto. Ma quando fu chiaro che non avevo più un incarico all'università, effettivamente si diede da fare, non si può certo negare. Mi propose un posto di autista nella sua azienda e addirittura si offrì di sostenere le spese per il conseguimento della patente e dell'abilitazione al trasporto di passeggeri nel nostro oblungo paese e anche oltre i suoi confini. Viveka e io discutemmo a fondo la faccenda, com'è ovvio; il fratello non le era mai andato granché a genio e naturalmente accettare la sua proposta comportava una certa umiliazione. Ma sia come sia, accettai. Sei mesi dopo ero stato assunto e facevo il mio primo tour in veste di autista con licenza: insieme a un gruppo di pensionati dell'area di Stoccolma appassionati d'arte, partii per un viaggio di quattro giorni con destinazione Skagen in Danimarca.

Mi resi conto quasi subito che il nuovo lavoro mi piaceva,distante com'era dalla realtà un po' insulsa del mondo accademico. Potevo vedere luoghi che altrimenti non avrei mai visitato: Tromsø, Riksgränsen, Lugano, Cracovia, Madrid, San Pietroburgo, per nominarne solo alcuni. Era stupefacente, ma vero. Mi piaceva moltissimo fare l'autista di pullman, un lavoro che solo qualche anno prima non avrei nemmeno preso in considerazione.

Adesso però la penna nella mia mano vacilla, e così pure il pensiero nella mia testa. Sono le due. Rimando il seguito alla prossima notte insonne.

Spruzzi e brandelli, 27 ottobre

La mia vita con Viveka funzionò bene per qualche anno. O almeno così la vedo a posteriori. Ogni tanto avevamo qualche piccola crisi, è ovvio, ma nel nostro matrimonio non c'erano gravi disaccordi. I nostri caratteri erano in armonia, nessuno dei due andava a caccia di grandi emozioni nella vita, come fanno molti altri. Eravamo soddisfatti di vivere in maniera tranquilla, circondati da pace e ordine. Non avevamo una cerchia di amicizie molto vasta, ma ci vedevamo regolarmente con alcune coppie che avevamo conosciuto nei nostri primi anni a Uppsala. Hasse e Ingela, entrambi medici. Stefan e Paula, pastore e insegnante di liceo, rispettivamente. Oliver e Katarina, lei psicologa e amica d'infanzia di Viveka,lui pendolare a Stoccolma, dove lavorava al ministero degli Esteri.

D'estate andavamo in vacanza all'estero, ogni anno una destinazione diversa, e in febbraio o marzo passavamo una settimana in montagna. Hasse e Ingela avevano uno chalet a Vemdalen che prendevamo in prestito, a volte ci andavamo con loro. Naturalmente il mio lavoro di autista comportava che trascorressi delle notti lontano da casa, ma di rado più di sei o sette al mese, e la cosa non complicava affatto il nostro rapporto.

Piuttosto era vero il contrario, ricordo che era bello incontrarsi dopo qualche notte di separazione, e so che Viveka era dello stesso parere. Facevamo quasi sempre sesso la prima notte dopo il mio ritorno da un tour. Sì, a ripensarci adesso sono sicuro di non sbagliarmi su quegli anni precedenti la disgrazia. Ce la passavamo bene, il nostro rapporto era sereno, conducevamo una vita semplice e tranquilla ed eravamo in pace con l'esistenza. Se mi venisse offerta la possibilità di rivivere una parte della mia vita, sceglierei senza esitazione quel periodo.

Gli anni fra il 2003 e il 2006, grossomodo; naturalmente tirando il freno d'emergenza e saltando giù dal treno per tempo prima di marzo 2007, ma non è il genere di pensieri a cui sono solito dedicarmi. Mi è solo venuto in mente così, come una possibile dimostrazione del fatto che la mia vita un tempo era diversa da com'è oggi.

Prima di arrivare all'incidente, devo però raccontare un fatto doloroso avvenuto il 13 dicembre 2006, festa di Santa Lucia. Mia madre fu investita da un motociclista e riportò ferite così gravi che morì il giorno dopo in ospedale. Successe a Karlstad, dove i miei genitori abitavano dagli anni Ottanta e dove io stesso avevo trascorso l'adolescenza. Quella perdita improvvisa colpì duramente mio padre, appena andato in pensione dopo aver lavorato tutta la vita come insegnante e dirigente scolastico, e so che entrambi erano impazienti di godersi un po' di tempo da pensionati ancora in buona salute, con la possibilità di viaggiare e di vivere alla giornata. A mia madre mancavano solo pochi mesi e poi avrebbe lasciato il lavoro in banca, erano sposati da quasi quarant'anni. Tornai a casa a Karlstad sia per assistere ai funerali sia per essere di sostegno a papà. Sono figlio unico, e in una situazione del genere non avere fratelli o sorelle è uno svantaggio.

Ma cercai di fare come meglio potevo, e quell'inverno qualche volta papà venne anche da noi a Uppsala. Nei giorni fra Capodanno e l'Epifania, per esempio. Non si poteva non notare quanto fosse triste, e ricordo che temevamo davvero che stesse pensando di togliersi la vita. Viveka e io ne parlammo, riuscimmo a convincerlo ad andare in terapia a Karlstad, ma non ho idea se ottenne qualche risultato. Una sua cugina più giovane, che era psicologa e abitava a Filipstad, cercò di occuparsi di lui, ma il loro rapporto non era mai stato dei migliori, e non credo che i suoi tentativi di rimetterlo in sesto ebbero chissà quale successo. In generale quei primi mesi del 2007 furono un periodo pesante e gravido di preoccupazione, ma per quanto mi riguarda tutto fu oscurato da ciò che accadde il 22 marzo.

Spruzzi e brandelli, 1° novembre

Si trattava di una settimana bianca. Faccio fatica a scriverne. Altro non ci si poteva aspettare, ovvio. L'intera vicenda è ben documentata negli archivi di ogni mass media del paese, più o meno, ma naturalmente non posso omettere di parlarne. È appena passata l'una di notte. Karin dorme di là in camera, io sono seduto nella poltroncina di vimini, nella nicchia che guarda verso la piccola striscia di bosco che divide il nostro terreno da quello dei vicini. Il cielo è scuro, presto comincerà a piovere. Mi faccio forza, sistemo la lampada a stelo e decido di riportare ciò che accadde senza alcun coinvolgimento sentimentale. Con la sobria lucidità del verbale di un processo; ho avuto occasione di leggerne qualcuno, in passato. Una settimana bianca, dunque. Un gruppo di quindicenni di una scuola di Stoccolma che, insieme a un paio di genitori e un paio di responsabili dell'associazione per la promozione delle attività sportive, avrebbe trascorso una settimana sciistica a Duved. Non era la prima volta che mi capitava un incarico del genere, tutt'altro. Con due soste di mezz'ora lungo il tragitto, si potevano calcolare circa otto ore di pullman. Nove o dieci se il tempo o le condizioni delle strade non erano ottimali. Recuperai il gruppo alle nove del mattino a Norra Bantorget, come da programma, e mezz'ora dopo eravamo in viaggio. A Stoccolma il tempo era bello, la temperatura intorno allo zero con sprazzi di sereno, ma avevano diramato un'allerta meteo per possibili nevicate e venti in aumento più a nord nel corso della giornata. In ogni caso avremmo dovuto farcela ad arrivare entro sera, non c'era motivo di correre o preoccuparsi. Nessun motivo di tenere una velocità superiore a quanto consentivano le condizioni del tempo. E io non lo feci, e nemmeno venni mai accusato di averlo fatto. Ma bastano uno o due secondi di sfortuna perché la vita venga rivoltata completamente.

O abbia fine.

Successe dieci minuti dopo Svenstavik. Era buio, e cominciavano a cadere i primi fiocchi. Non una nevicata copiosa, ma sufficiente perché riducessi la velocità. Quando quel povero animale balzò sulla carreggiata, non stavo andando a più di settanta all'ora, come stabilì la perizia, il che quadra con la mia impressione. Per evitare la collisione sterzai a sinistra, il pullman slittò leggermente e proprio in quell'attimo da dietro una curva arrivò in senso opposto un autotreno. Cercai di riportarmi sulla mia corsia, ma gli pneumatici non fecero presa e urtammo il pesante veicolo che ci veniva incontro.

Non frontalmente, ma fiancata contro fiancata, abbastanza comunque per farmi perdere il controllo del pullman. Frenai, ma senza successo. Continuammo la nostra corsa di lato, lungo una scarpata di venti metri. Ci fermammo a più di cinquanta metri dal punto dove eravamo finiti fuori strada, in mezzo a grossi blocchi irregolari di pietra, il pullman si accartocciò letteralmente e prese fuoco.

Più tardi quella notte mi risvegliai all'ospedale di Östersund e venni a sapere che sedici studenti e un genitore avevano perso la vita nel terribile incidente. C'erano quattro feriti gravi, e solo una mezza dozzina se l'era cavata senza conseguenze. Metto da parte la penna e chiudo il bloc-notes. Resto un momento a guardare fuori nel buio. Nessuna traccia di aurora.

No, davvero io non dovrei vivere".

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