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La portalettere - Francesca Giannone

(tratto da quotidianopuglia.it)

«Mentre lavoravo mi ripetevo una frase di Hemingway: "scrivi la cosa più autentica che sai"». Francesca Giannone racconta come è nato La portalettere. Il suo fulminante romanzo d'esordio è un vero caso editoriale: è in classifica da quando è uscito, lo scorso 10 gennaio, ed è già alla settima edizione. Non solo: presto l'epopea di Anna Allavena - la donna ligure che piomba in Salento e diventa la prima postina del Meridione, creando grande scandalo negli anni Trenta - diventerà una serie tv, prodotta da una casa di produzione romana.
Per la casa editrice Nord, è il quarto colpo del genere, messo a segno dalla direttrice editoriale Cristina Prasso. Dopo l'enorme successo di Stefania Auci e dei suoi Leoni, in due volumi bestseller dedicati ai Florio, sono seguite altre due saghe familiari, quella dei Casadio (La casa sull'argine di Daniela Raimondi) e quella dei Crespi (Al di qua del fiume di Alessandra Selmi). La portalettere è ispirato alla vera storia della bisnonna dell'autrice, della famiglia Greco e della comunità di Lizzanello, piccolo paese alle porte di Lecce.

Come è nato questo romanzo?
«Probabilmente senza il lockdown non sarebbe venuta fuori questa storia.

Tutti in quel periodo abbiamo fatto pulizia, rovistato cassetti. Io stavo aiutando mia madre a pulire dei mobili quando è venuto fuori un immenso tesoro. C'era un biglietto da visita vecchio di cent'anni della mia bisnonna. E poi antiche foto in bianco e nero, documenti, lettere d'amore. Per settimane mi sono messa a spulciare tutto quello che c'era. Avevo trovato un mondo».

È su questi documenti che si basa la sua ricostruzione?
«Sì, e anche sui racconti di mia madre, depositaria di tante cose in famiglia. Lei possiede ancora il mortaio che Anna usava per triturare il basilico, che conserviamo come un cimelio. E poi, ho chiacchierato tantissimo con gli anziani del paese, che all'epoca erano bambini. Si ricordavano tutti di questa donna, che loro chiamavano "la forestiera". Un soprannome che le è rimasto fino alla fine dei suoi giorni. Ho raccolto queste testimonianze e fatto tanta ricerca storica sul Salento di quegli anni, soprattutto sugli anni Trenta, e poi oltre, fino agli anni Sessanta».

Si tratta della prima portalettere del Salento?
«Del Salento sicuramente. Ipotizzo anche della Puglia, visto che non ci sono altre testimonianze di postine donne, all'epoca. Neppure negli archivi postali».

Anna faceva davvero scrivere messaggi segreti sotto i francobolli?
«Mi sono ispirata a due amanti che a quel tempo comunicavano in quel modo. Ho usato anche tante fotografie per ricostruire le scenografie, e i costumi di quel periodo. Sono partita da lei e poi ho costruito la famiglia».

Com'era la sua bisnonna?
«Sicuramente antifascista e progressista. Nella terza parte del libro fonda una casa delle donne per aiutare persone in difficoltà, analfabete, vittime di violenza domestica, oppure che avevano perso il marito in guerra ed erano rimaste senza fonti di sostentamento per sopravvivere. Lei aiutava le donne nel privato, io nella finzione letteraria la immagino fondare questa struttura con molti anni di anticipo, rispetto agli anni Settanta, quando nascono tante case delle donne».

Non deve avere avuto vita facile, in paese, no?
«Sì e non si è mai integrata veramente, malgrado avesse questo ruolo di collante sociale: entrava nelle case di tutti, leggeva le lettere agli analfabeti...»

Quali tappe ha toccato prima di scrivere "La portalettere"?
«Ho studiato a Lecce Scienze della Comunicazione. Ho vissuto a Roma per sei anni, ho frequentato il Centro sperimentale di cinematografia. All'inizio volevo fare cinema. Il desiderio di scrivere è arrivato dopo, quando ho frequentato la scuola di scrittura di Carlo Lucarelli, Bottega Finzioni. A Bologna ho lavorato con il Fondo Luigi Bernardi, c'era un enorme archivio di libri e fumetti da riordinare. Fu lui far esordire autori come Magnus...»

E poi?
«Sono tornata a Lizzanello, dove si svolge la storia del libro. Dipingo anche, ma sono un'autodidatta, la vedo come un gioco. Ho venduto molti quadri negli Stati Uniti, tra New York e Los Angeles. Magari sarà partito un passaparola...»

Sta già pensando a un seguito?
«C'è uno spiraglio nell'epilogo, che si svolge nel 61, che può far pensare a un seguito. Vedremo. Intanto, i diritti di questo libro sono stati opzionati da una grossa casa di produzione cinematografica romana - non posso ancora dire quale - che vuole farne una serie tv. C'è stata un'asta piuttosto agguerrita, con cinque concorrenti».

Ispirazioni letterarie?
«Amo follemente Elena Ferrante, la trilogia dell'amica geniale. Ma non ho provato a scrivere come lei. Ho cercato la mia voce, e per la prima volta è venuta fuori».

Come si spiega tutto questo successo?
«Le emozioni di chi scrive arrivano anche a chi legge. Quando ho scritto l'epilogo, ho pianto. E, come me, tanti mi hanno scritto di essersi commossi leggendo quelle pagine».

Come l'hanno presa in paese?
«In realtà benissimo. E sono contenta perché finalmente, dopo tanti decenni, la comunità rende omaggio a una concittadina che, nel suo piccolo, ha contributo a fare la Storia».

Giù nella valle - Paolo Cognetti

“La Sesia, quando la attraversò, era un solco scuro.

Dopo il ponte i fianchi della valle si fecero più severi. L’autunno aveva ormai perso ogni colore e adesso nelle faggete, nei castagneti, nei querceti le foglie secche si accumulavano al suolo”.

La Valsesia di Paolo Cognetti è cupa, risuona di ululati e di una tensione amara, dolorosa. Giù nella valle (Einaudi) è una storia di fratelli in un mondo di ambiguità e di disagio, dove nessuno è Caino, nessuno è Abele. Luigi è una guardia forestale, Alfredo uno sbandato tornato dopo anni trascorsi in giro, tra lavoretti e galere. Hanno rinunciato entrambi alle loro illusioni, sono entrambi a modo loro inadatti, fuori posto: cani randagi, che si credevano lupi.

A Fontana Fredda c’è la casa del padre, morto suicida. Luigi vuole andarci a vivere con la moglie Elisabetta, e ci sono cinquemila euro pronti per Alfredo, la sua parte: sono quelli che lo hanno fatto rientrare nelle terre della sua infanzia. Ma c’è anche il progetto di una pista, una svolta per la valle, forse anche per Luigi, che potrebbe nascondere qualcosa al fratello. C’è nervosismo nell’incontro tra i due, ed è un’atmosfera tagliente che pervade tutto il libro. Quella di Fontana Fredda non è la casa della riconciliazione di Pietro e Bruno, i protagonisti delle Otto montagne. Qui non c’è da costruire insieme, non c’è un progetto, c’è solo tristezza, l’ombra della disonestà, e un destino con cui fare i conti, ineluttabile, come il fiume che scorre in una sola direzione. Come i lupi che non possono fare a meno di ammazzare.

“Ma è dalla notte dei tempi che gli uomini tagliano le piante, accoppano le bestie e si sfondano la testa a vicenda. Se c’è del male su questa terra è solo roba nostra”.

Liberaci dal male: cresciuti recitando una preghiera che le sberle della vita hanno svuotato di potenza, ci si ritrova a scoprire a nostre spese che il male è tutto dentro di noi. La valle insegna una verità assoluta, c’è una parte al sole, e una parte all’ombra, ci sono gli animali domestici e quelli selvaggi, ci sono i campi e i boschi, i cani che guardano con nostalgia le case, i lupi che azzannano per sopravvivere. Ci sono fratelli che appaiono diversi, sole e ombra: il larice dritto a cercare la luce, l’abete fitto di aghi scuri. Duro e fragile, in grado di ondeggiare nel vento, Luigi è il larice. Ombroso, ma forte e resistente, adatto al gelo: Alfredo è l’abete, il sorriso sporcato dal fumo e dalla vita.

Sono due fratelli apparentemente diversi, gli alberi piantati vicini dal padre, un uomo triste, il cuore sprangato: destinati a intrecciarsi nel tempo, o a essere abbattuti, per spezzare un legame, un cordone.

La storia di Luigi e “Fredo” è fatta di non detti, di tante condanne e poco perdono, è piena di solitudine, di valle: la Valsesia ha una bellezza selvatica, scura, è una terra operaia, rifugio di minoranze, di gomiti appoggiati al bancone del bar alle quattro del pomeriggio, l’alcol a connettere il lato selvaggio e quello domestico, a unire la luce con l’ombra, Luigi con Alfredo, a trasformare in lupi, mentre tutti se ne vanno e chi resta si ritrova la gramigna a crescere nel petto.

Sono cuori in secca, come il fiume, dove dieci anni prima ci si innamorava: Luigi ci portava Elisabetta a fare il bagno, e lei, ragazza di città, aveva intravisto il fascino della vita reale, in quelle acque e nello sguardo di ragazzo che voleva lavorare il legno, il suo “buon selvaggio”. Ma le stagioni dei bagni nel fiume sono passate, insieme ai sogni, ed è rimasta la vita: Elisabetta è una Karen Blixen sola nella sua terra straniera, e la Sesia è un’acqua nella quale immergersi per dialogare con la stagione selvatica, un rito primordiale di incontro con la natura.

È la disadorna semplicità del folk l’anima di Giù nella valle, dove Paolo Cognetti racconta la sua badland, rievocando atmosfere dei margini, di disoccupati e emarginati, da Grande Depressione americana.
“Scrivere è un po’ dialogare con i tuoi maestri”, diceva Cognetti in un’intervista a ilLibraio.it, e in questa storia riecheggia l’eco dei cantori degli sventurati, Raymond Carver, Flannery O’Connor, Bob Dylan, ma soprattutto Bruce Springsteen con il suo Nesbraska.

“Well, sir, I guess there’s just a meanness in this world”, cantava Springsteen nel suo album, dove il rock lasciava il posto a un folk ruvido, e cupo, per una storia roca di miseria.

Scende a valle, Paolo Cognetti, si immerge nelle acque della fragilità, nelle ombre delle persone perse, nella vita che sbatte a terra, in un nowhere spettrale, e riprende i versi di un bardo gallese del VI sec per mettere in scena una nuova Battaglia degli alberi.

Il suo Nebraska nasce così, desolato, dritto al cuore delle cose, sul solco di un dialogo con gli autori, i “suoi classici”, dove musica e racconti trovano un terreno comune: Giù nella valle risuona duro, con la sua caratteristica scrittura asciutta e limpida, senza niente di troppo, che a tratti ha il suono crudo di una ballata per chitarra e armonica.

“Non fermarmi, fratello mio: pensa a tua moglie, pensa a tua figlia. Addio Sole e Neve, una bionda!, addio La Ruota, un whisky!, addio Silly Monkey, giù le mani che pago il giro. Non fermarmi, fratello, non fermarmi: pensa a quello che hai tu e che non ho io. Addio Laghetto, addio Woodland, addio Bar Alpino, addio. Guarda questo fiume nero, guarda come è tutto chiaro”.

L’autore del bestseller “Le otto montagne” torna con “Giù nella valle”, una storia di fratelli in un mondo di ambiguità e di disagio, dove nessuno è Caino, nessuno è Abele. La Valsesia narrata dall’autore è cupa, risuona di ululati e di una tensione amara, dolorosa. Riecheggia l’eco dei cantori degli sventurati: Raymond Carver, Flannery O’Connor, Bob Dylan, ma soprattutto Bruce Springsteen con il suo Nesbraska…

Ciò che inferno non è - Alessandro D'Avenia

Il romanzo narra gli ultimi giorni di don Pino Puglisi (oggi beato), il sacerdote parroco di Brancaccio, una frazione di Palermo, ucciso dalla mafia. La lettura del romanzo è gradevole e scorre nella prima parte ma diventa pura lirica nella parte terminale in cui la morte preannunciata, si attua. E’ qui che emerge tutta la grandezza del sacerdote che con umiltà ma con decisione vive la sua esperienza di fede incarnata nelle mille spigolosità della vita comune in una quartiere povero, abbandonato da tutti, condividendo la bellezza della fede con le brutture che una vita senza speranza e assoggettata al potere della mafia, rendono come l’orizzonte da cui sembra impossibile riemergere. Ne viene fuori un’immagine di sacerdote e di uomo profondamente legato alla gente del posto, ma con uno sguardo ed un sorriso coinvolgenti, che non lascia nessuno indifferente, nemmeno coloro che poi decideranno e attueranno la sua morte. Libro da leggere che ci avvicina alla figura di questo sacerdote che ha vissuto nella consapevolezza che per salvare la vita occorre essere disposti anche a perderla.

Il mio amico Freddie - Rudi Dolezal

«Come ti descriveresti come artista? Molto organizzato? Molto spontaneo?». «Io come artista? Sono solo una prostituta musicale, mio caro». Questa risposta la dette Freddie Mercury a Rudi Dolezal a Monaco, nel 1985, e è passata alla storia come la «prostitute interview». Ma non solo. Rudi Dolezal era allora un giovane regista di video musicali austriaco, ma con Freddie scattò un legame speciale.

È la storia che il regista racconta nel suo libro appena uscito in Italia e pubblicato da Sperling & Kupfer, Il mio amico Freddie, e che inizia proprio da quell'intervista registrata a Monaco, nel 1985: se ci pensate proprio quando si chiude il tanto celebrato film Bohemian Rhapsody, che di Freddie non coglie niente, rappresentandolo come un personaggio egocentrico, ombroso, arrogante, tutto il contrario. «Sul palco era un frontman energico e carismatico, capace di tenere in pugno decine di migliaia di spettatori: sembrava un gigante di tre metri. Quando scendeva, però, tornava a essere un piccolo uomo di un metro e settantacinque, delicato, fragile e timido». Tralasciando, tra l'altro, nel tanto celebrato film, tutto ciò che ha realizzato Freddie dopo il 1985, coronando ciò che ha sempre detto: «non voglio essere una rockstar, diventerò una leggenda».

Ecco, Dolezal ha realizzato con Freddie ben diciotto video, ma lo ha anche frequentato in privato, credo unico eterosessuale della cerchia di amici intimi di Freddie (a parte Peter «Phoebe» Freestone, l'assistente personale). Il libro è pieno di aneddoti mai rivelati: la realizzazione del video di One vision, di Breakthru, di Scandal, di Living on my own. Quest'ultimo girato per il trentottesimo compleanno di Freddie, a Monaco, con una festa all'Old Mrs. Henderson nella quale dovevano essere tutti travestiti in bianco e nero. Freddie e Rudi stravolsero anche i colori del locale, per renderlo intonato all'evento, ma il proprietario poi decise di ripristinarlo com'era, definito da Rudi «l'impresario più stupido del mondo» (in effetti oggi sarebbe un'attrazione turistica per i fan). In un'altra festa, dopo un concerto a Vienna, Freddie pensò di offrire a tutti i tecnici, gli autisti e membri dello staff molti alcolici, e incaricò Rudi di trovare venti prostitute.

Rudi in sei anni ha realizzato ogni video, si rese disponibile in ogni occasione, venendo via dal Kenya anche quando era in vacanza con la moglie, nel 1991, perché arrivò un fax dalla leggenda: «Caro Rudi, voglio che torni a Londra immediatamente. Ho una nuova idea per il nostro video. Sono entusiasta. Per favore vediamoci a Londra domani. Freddie». Freddie era malato, l'AIDS lo aveva scarnificato, e i Queen avevano pensato di realizzare il video di I'm going slightly mad usando un robot al posto di Freddie: la Disney, proprietaria della Hollywood Records, con la quale la band aveva siglato un accordo stratosferico, avrebbe pagato tutte le spese.

Ma Freddie, l'incontenibile Freddie, pur in fin di vita, ci ripensò: Rudi tornò a Londra e ne venne fuori un vero e proprio capolavoro. C'era davvero Elton John nel costume da gorilla che si vede nel video? Non spoilero. Forse c'era David Bowie si dice. Oppure? Negli ultimi tempi Rudi aveva paura di essere baciato anche sulla guancia, all'epoca si sapeva poco di come si trasmettesse l'Hiv, ma in uno degli ultimi incontri fu Freddie a evitare di farlo. In compenso lo baciò Rudi, d'istinto. Grande Freddie, grande Rudi.

Momenti comici, tra i tanti: nel video di The invisible man ciak si gira ma Freddie non si trovava più. Rudi lo trovò carponi nel camerino, e si inginocchiò anche lui, per aiutarlo a recuperare una bustina di cocaina finita sotto un mobile. Non fate i moralisti al riguardo, nel libro di alcol e cocaina ce n'è tanta, ma pensate al consumo che ne fanno centinaia di milioni di persone senza essere Freddie Mercury.

C'è un Freddie intimo che si confessa a Rudi perché non trova l'amore, il vero amore. «Sai, Rudi, uno come me spesso si chiede: chi mi ama davvero? In quanto gay non posso avere un figlio che mi ami davvero. E come faccio a sapere se il mio compagno ama me, la persona, e non la superstar Freddie Mercury?». C'è un Freddie che gira l'ultimo video in assoluto dei Queen, consapevole sarebbe stato l'ultimo, aveva ormai pochi mesi di vita. Mi riferisco a These are the days of our life. Gli accordi con Rudi erano chiari: solo un take per scena, Freddie era troppo stanco. Ma l'ultima scena fu lo stesso Freddie a chiedere a Rudi di girarla di nuovo. Rudi eseguì, ma capì la ragione solo in seguito, durante il montaggio. Nella ripresa girata di nuovo Freddie canta l'ultima strofa, sorride verso la telecamera, e esce di scena, lasciando solo lo sfondo nero. L'ultima uscita di scena di una leggenda. Da brividi.

Quando ho letto questo libro stavo scrivendo il mio ultimo romanzo, Volevo essere Freddie Mercury (La Nave di Teseo), e contattai Rudi per renderlo un personaggio della mia opera, e nel frattempo lo misi in contatto con il mio agente Piergiorgio Nicolazzini per l'edizione italiana del suo libro. Sperling lo comprò subito. Ero solo perplesso sulla parte dedicata a Mary Austin, l'ex fidanzata di Freddie che ha ereditato quasi tutto il suo patrimonio: ne ho sempre pensato e scritto male, siccome alla morte di Freddie cacciò tutti di casa, incluso il compagno di Freddie, Jim. Invece Rudi nel libro non si sbilancia.

Tuttavia due mesi fa Mary ha venduto tutti gli oggetti di Freddie all'asta, svuotando la mitica Garden Lodge. Così ho chiamato Rudi e gli ho detto: «Rudi, she's a fucking cunt». Rudi, il sensibile Rudi, il cui motto è Love & Respect (è una frase che inserisce alla fine di ogni messaggio), è stato zitto qualche secondo e poi ha esalato uno sconsolato, rassegnato: «I am obliged to agree with you, my dear».

Coraggio - Raina Telgemeier

Amo questa autrice!!!!
Leggete tutti i suoi libri!
Se vi è piaciuto (come la sottoscritta) andate a leggere il continuo: "Smile"!
Buona lettura!
PS: Spero che amiate questo libro come me!

Sindrome Italia - sceneggiatura: Tiziana Francesca Vaccaro

(tratto da lospaziobianco.it)

Una vita scissa, anfibia, fatta di privazioni, sofferenze e senso di sdradicamento. Una testimonianza importante, non documentaristica ma profondamente umana, di quella malattia chiamata, beffardamente, Sindrome Italia. Lo so, non ci si dovrebbe autocitare, ma penso che il sunto di Sindrome Italia di Tiziana Francesca Vaccaro e Elena Mistrello sia ben sintetizzato in queste parole. Un racconto dell’esperienza vissuta da migliaia di badanti che vivono in Italia ma che spesso sono ancora invisibili ai nostri occhi, spesso trattate con sufficienza e pregiudizi. Con quest’opera le due autrici hanno spalancato una finestra su questo tema con delicatezza ma anche onestà, ottenendo grande riconoscimento di pubblico e critica.
Le abbiamo intervistate per parlare del loro incontro, del loro lavoro e del futuro della loro opera.

Ciao Tiziana e ciao Elena, grazie per il vostro tempo. Vorrei partire da Tiziana, perché, prima di essere un fumetto, Sindrome Italia è stato uno spettacolo teatrale nato all’interno di un progetto rivolto proprio a donne dell’est che fanno o facevano le badanti. Come è nato il progetto?
Tiziana Francesca Vaccaro: Era il 2018. Stavo cercando materiale per scrivere il mio prossimo spettacolo teatrale. Cercavo storie che potessero ispirarmi. Le mie vicine di casa, nell’appartamento proprio accanto al mio, abitavano tutte insieme, tutte ucraine, tutte badanti. Una di loro per qualche tempo si è presa cura di me, mi faceva una puntura al giorno per un problema di salute. E tra una puntura e l’altra, mi raccontava pezzi della sua vita, soprattutto del suo lavoro in Italia e della fatica che era sempre tanta. Parlava con gli occhi bassi, lucidi, scavati dalla stanchezza. Ho deciso che volevo saperne di più, che valeva la pena raccontare queste storie così potenti eppure così invisibili, e ho iniziato a documentarmi. Ho scoperto che a Milano, città in cui vivo, c’era l’Associazione Donne Romene in Italia e che l’attivista e fondatrice Silvia Dumitrache si riuniva con alcune di queste donne in Cascina Cuccagna. L’ho contattata, si è dimostrata subito gentile e disponibile, ci siamo incontrate qualche giorno dopo. È lei che mi ha parlato per la prima volta del fenomeno medico-sociale “Sindrome Italia”. Da quell’incontro ho sentito il desiderio e un senso forte di responsabilità come artista di raccontare senza filtri questo pezzo del nostro tempo, della nostra storia. Perché fa parte di tutti noi, di tutti quelli che lasciano il proprio paese e che, nel paese in cui arrivano, un paese straniero, si trasformano.

Passando al fumetto, come hai pensato di trasporre lo spettacolo proprio in questa forma? Come si è svolto il vostro lavoro insieme?
T: Da amante delle sperimentazioni, degli ibridi, delle miscele di linguaggi, ho iniziato un giorno a vedere la storia di Vasilica disegnata. A vederla nitidamente, vignetta dopo vignetta. Ho pensato che i disegni in questa storia potessero raccontare anche più delle parole e che portassero un linguaggio forte, più immediato, per arrivare a quella fetta di pubblico che a volte (non sempre, per fortuna) in teatro fai fatica a raggiungere: le ragazze e i ragazzi. Elena, con cui ho avuto modo di collaborare anche in altri lavori precedenti, ha subito sposato il progetto. Prima di mettere nero su bianco, per me autrice di testi teatrali e nuova al graphic novel, ho studiato sceneggiatura, come sempre ogni volta che mi avvicino a un nuovo linguaggio. L’ho studiato a fondo, volevo e dovevo conoscerlo bene. Elena mi ha chiesto subito di non suddividere la sceneggiatura per vignette ma solo per tavole, affinché si sentisse più libera nelle sue visioni, di cui mi sono fidata ciecamente. A quel punto è partito un altro viaggio ancora, in cui hanno preso vita le rane, l’acqua, i colori. Elena si nutriva delle mie parole, dei miei racconti e la sceneggiatura delle sue visioni: man mano che i disegni prendevano vita, cambiavano anche le parole, le scene. A un certo punto tutto si è fuso. Elena è stata molto brava a seguirmi, a entrare dentro la storia come se fosse sua, tanto che poi alla fine lo è diventata. Una volta dentro completamente, si è lasciata andare allo stile che emotivamente l’avvicinava di più al personaggio. Io insistevo molto sulle espressioni del volto, sugli sguardi, sui più piccoli dettagli che ero certa avrebbero fatto poi la differenza nella narrazione della storia. Lei si è fidata completamente, con una dedizione totale e commovente.

Beccogiallo è molto attento a questo genere di storie, focalizzate sull’attualità e sulla società. Avete sviluppato il progetto fin dall’inizio con questo editore?
T: Sì. Quando abbiamo proposto il progetto, devo dire che c’è stato subito grande entusiasmo e un forte slancio. Elena aveva già felicemente collaborato con la casa editrice, per cui la fiducia nei suoi confronti era totale. E devo dire che hanno fatto presto a fidarsi anche di me!
Elena Mistrello: Confermo quello che ha scritto Tiziana, Beccogiallo ci ha dato molta fiducia, e ci ha seguito lungo tutto il processo lasciandoci comunque piena libertà.

La storia si muove su piani temporali diversi, alternando flashback e flashforward. Come siete arrivate a questa scelta narrativa?
T: A livello di struttura il racconto non ha un andamento temporale lineare perché i viaggi di Vasilica sono due: l’andata verso l’Italia e il ritorno in Romania. E il suo percorso è sempre sottoposto al meccanismo della memoria, che c’è nel mezzo, prima e dopo. La memoria è un fattore fondamentale attorno a cui ho riflettuto molto durante la stesura del testo teatrale e ancor prima mentre raccoglievo la storia di Vasilica, il cui racconto, infatti, non era mai veramente lineare. Ricordo che a volte perdeva il filo, tornava indietro o si chiedeva addirittura se quel pezzo di vita l’avesse veramente vissuto o solo immaginato. Ecco perché ho deciso di intitolare lo spettacolo teatrale “Sindrome Italia. O delle vite sospese”: le vite delle donne come Vasilica vivono in questo stato di sospensione, sia spaziale, tra il paese d’origine e quello di arrivo, sia temporale, tra un passato che è ricordo, nostalgia e un futuro che è sogno, utopia. In mezzo c’è il presente, un tempo non vissuto mai realmente perché sempre impiegato a desiderare qualcos’altro. Quindi quando si è trattato di rendere questa sospensione o, se preferite, questo disordine spazio-temporale, anche nel fumetto, non ho avuto dubbi. L’unico modo per raccontare bene qualcosa per me è viverla e farla vivere anche al lettore.

Quale è stata la testimonianza più difficile da ascoltare e da rappresentare, e quale quella più sorprendente?
T: La cosa più difficile per me è stata raccogliere tutti i racconti sui figli: il dolore, la pena, lo strazio di non poterli più vivere, di lasciarli da bambini, ancora piccoli e bisognosi della loro mamma, e di ritrovarli dopo tanti anni uomini e donne, quasi irriconoscibili. Quando ho iniziato a scrivere il fumetto, aspettavo mio figlio. Nonostante avessi già attraversato quel pezzo di storia nello spettacolo teatrale, riviverlo con un bimbo in grembo, è stato ancor più doloroso. La testimonianza più sorprendente invece riguarda la fame: non avrei mai immaginato che queste donne, che lasciano il proprio paese perché (letteralmente) “non hanno più niente da mettere a tavola”, in cerca di condizioni di vita migliore, una volta in casa dell’assistito, si ritrovano a soffrire ancora quella fame, a mangiare troppo poco e a vergognarsi di chiedere di più, perché il loro corpo ha bisogno per lavorare 24 ore su 24.
E: Come si può dedurre dalle prime domande, il progetto è nato da Tiziana la quale successivamente ha deciso di adattarlo per il fumetto. Io sono arrivata dopo, quando la sceneggiatura era già scritta. Abbiamo lavorato insieme alla scrittura dello storyboard, attraverso continue condivisioni e suggestioni, ma al lavoro di ricerca e raccolta delle testimonianze io non ho partecipato. Quando ho letto la storia quindi ci ho messo del tempo per entrarci ed è stato fondamentale farlo attraverso gli occhi di Tiziana. Ricordo che alle prime letture c’erano tanti aspetti che mi avevano colpita, uno tra questi è sicuramente quello della fame.
Ma al di là della storia, la cosa più sorprendente per me alla fine è stato l’intera testimonianza di Vasilica, la sua lucidità e consapevolezza mi hanno davvero cambiata lungo tutta la scrittura del fumetto. Quando poi l’ho conosciuta di persona mi sono resa conto che il processo che aveva innescato Tiziana, ovvero questa modalità di raccontare tessendo legami con chi parla della propria esperienza, mi è sembrato molto forte ed è quello che da senso al nostro lavoro secondo me.

Dal punto di vista grafico, il segno di Elena è composto da poche linee e molto solide. Quali sono le ispirazioni di questo stile?
E: Ho avuto un lungo periodo di indecisione sullo stile da usare per questo fumetto, sono passata da colori ad acqua a tecniche miste fino al digitale. Alla fine però si trattava del mio primo fumetto lungo e mi serviva uno stile familiare che mi accompagnasse per tutte le tavole. Inoltre come già accennato, la storia era un po’ complessa e avevo necessità di renderla più diretta e chiara, senza appesantirla ulteriormente. In quei mesi ho attinto da diversi fumetti, ricordo di aver riguardato Persepolis di Marjane Satrapi che è rimasto incastonato nella mia memoria per via del suo tratto essenziale ma fortissimo, ma anche Bellezza di Kerascoet e Hubert nel quale invece cercavo il segreto per la bicromia perfetta (non l’ho trovato ma è stato utile). Avevo riguardato anche Come prima di Alfred per la libertà che ha nel passare da uno stile all’altro, una libertà che ammiro e che mi piacerebbe acquisire un giorno. In quei mesi era uscito anche Ombelico infinito di Dash Shaw, dove ho trovato tra l’altro una rana antropomorfa ma anche diverse suggestioni di tratto e scelte grafiche molto belle ed efficaci in quel tipo di narrazione lunga e monocroma. Ciclicamente mi riguardo David B. che mi insegna sempre tanto sull’utilizzo del bianco e nero e sulla capacità di mischiare il mostruoso col quotidiano. Con Tiziana invece abbiamo riletto diversi fumetti alla ricerca di equilibri tra testo e immagini, tra questi sicuramente il bellissimo Heimat di Nora Krug, dove i lunghi testi non pesano mai e sono integrati in maniera pazzesca con il disegno.
Potrei continuare perché sono tante le influenze, ma direi che può bastare. Per concludere alla fine sono ritornata a questo stile (le tavole sono disegnate a mano e la colorazione è digitale) con cui mi sento a mio agio e che sento mio, che mi ha permesso di concentrarmi a pieno sulla narrazione.

La trasformazione di Vasilica in una rana, arrivando a mangiare poi i suoi stessi figli (richiamo alla famosa tela Saturno che divora i suoi figli di Francisco Goya) è forse il momento visivamente più potente dell’intera storia. Come è nata questa immagine nelle vostre teste?
T: L’immagine mostruosa mi è sempre stata chiara e in qualche modo è presente anche nello spettacolo, seppur in scena non è che mi trasformi letteralmente in mostro, ma il corpo e la voce, ciò che dico, qualcosa di mostruoso lo evocano sicuramente. Quando ho raccontato a Elena che per me in quelle scene lei doveva diventare un mostro, una che divora e si divora, è arrivata subito l’idea di una rana enorme, quasi deforme. La rana era già presente nel racconto, in altre forme (penso per esempio alle rane con cui giocava Vasilica da bambina) quindi la trasposizione mostruosa ci è sembrata un passaggio giusto, naturale.
Più in generale, l’idea della rana è arrivata quasi per caso, quando ero ancora in creazione del testo dello spettacolo. Un giorno mi è capitato di leggere il “principio della rana bollita” di Noam Chomsky, in cui si racconta di una rana che nuota tranquilla dentro un pentolone d’acqua tiepida, fino a quando questa non arriva a temperature altissime e la rana finisce morta bollita. E che se l’acqua fosse stata bollente sin dall’inizio, la rana, con un colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone. Una metafora per descrivere la pessima capacità dell’essere umano di adattarsi a situazioni spiacevoli e deleterie senza reagire, se non quando ormai è troppo tardi. Da lì ho iniziato a studiare epertologia, scoprendo delle cose interessantissime sulle diverse varietà di rane e quanto ognuna di queste assomigli a noi esseri umani in maniera impressionante. Nel mio caso, quindi, il paragone con la rana è stato duplice: come le rane in generale, in grado di vivere sia sull’acqua che sulla terraferma, Vasilica subisce una vera e propria trasformazione, o meglio metamorfosi: si adatta, resiste, sopporta. Come la rana del principio di Chomsky, Vasilica non riesce a uscire dalla gabbia in cui si trova, e si ammala fino a non riconoscersi più.
E: La rana era già presente nella sceneggiatura, nella mia testa ha dovuto solo essere visualizzata. Dal canto mio ho cercato di avvicinarmi il più possibile al “mostruoso” ricercato da Tiziana, questo passaggio è stato uno degli aspetti più interessanti della stesura del fumetto. Perché essendo fantastico era un terreno quasi comune, uno spazio emotivo e non solo una testimonianza di vita vissuta.

Anche il colore gioca un ruolo narrativo importante, scandendo i passaggi temporali. Come sono stati scelti i colori che accompagnano le varie fasi della vita di Vasilica?
T: L’idea di usare almeno due colori per permettere al lettore di muoversi più agilmente nella storia è stata subito chiara. Due colori ad acqua, quelli che ci piacevano e ci “raccontavano di più”: giallo per la Romania, il tempo passato ma anche e di nuovo il presente; verde per l’Italia, il lavoro, la sindrome. Per poi fondersi insieme in un ipotetico futuro, la speranza di una vita migliore, chissà.
E: Come ha già scritto Tiziana la storia era basata su questi salti temporali e si basava proprio su questo continuo spostamento che era anche geografico. È stato importante far si che ogni passaggio fosse chiaro per chi leggesse, per questa ragione abbiamo scelto una bicromia semplice e contrastante. Questi due colori e le loro piccole variazioni, i passaggi e il loro interagire a vicenda contribuiscono alla narrazione e addirittura in alcuni passaggi riescono a raccontare piccole sfumature che aumentano l’intesa del testo e del disegno. Il colore infatti non racconta solo il passaggio temporale e geografico ma anche il sentimento di sospensione, il momento in cui Vasilica non è in Italia ma non è neanche in Romania.

Immagino che Vasilica abbia letto il volume, così come altre donne con la stessa esperienza. Quali sono state le reazioni e il feedback?
T: Vasilica mi ha detto che le è sembrato strano rivivere la sua storia dentro un fumetto, vedersi la vita disegnata, specchiarcisi dentro. Si è emozionata, ha riso, ha pianto. Non so quante altre donne con la stessa esperienza siano riuscite a leggerlo. Sicuramente so che molte persone, nonostante non abbiano mai lavorato come badanti, si sono comunque ritrovate in alcuni frammenti, soprattutto quelli legati a certe dinamiche di relazione, alla solitudine, al dolore per il distacco dai figli. In fondo sono dei sentimenti universali in cui tanti di noi si riconoscono. Altre persone ancora mi hanno detto che non pensavano che dietro il volto e il corpo di una “badante” ci fosse una storia così forte e complessa, e alla fine mi hanno ringraziata perché, leggendo, sono riuscite a superare alcuni stereotipi e andare al di là di qualche pregiudizio. Qualcun altro ancora, ritrovatosi suo malgrado dall’altra parte, nel ruolo di datore di lavoro, mi ha detto che finalmente ha trovato delle risposte ad alcuni atteggiamenti della badante della propria madre che non comprendeva e il loro rapporto adesso è molto migliorato. Questi sono dei bei risultati, una soddisfazione per me, per noi.

Il feedback dei siti specializzati ma anche di stampa generalista e lettori è stato molto grande, nonostante un tema poco trattato e spinoso per l’opinione pubblica, di cui spesso si parla per luoghi comuni. Vi aspettavate questa attenzione? E come pensate che questa vostra opera possa inserirsi nel discorso pubblico?
T: In parte sì, mi aspettavo questa attenzione proprio per il tema nuovo e mai veramente indagato a fondo, nel campo dell’arte s’intende. Di Sindrome Italia si parla solo da qualche anno. Penso ai reportage di Francesco Battistini per il Corriere della Sera, anche qui con l’aiuto di Dumitrache, o ancora quello su “Alias”, l’inserto de Il Manifesto, e quello dopo ancora su L’Espresso. Andando più indietro ancora mi viene in mente il documentario che aveva mandato in onda la Rai. Nel campo della formazione diverse ricercatrici universitarie – Raffaella Sarti, Francesca Vianello, per citarne qualcuna – hanno scritto di migrazione femminile, di diritti del lavoro, di cura. Quindi sentivo che anche l’arte in qualche modo potesse e dovesse dare un forte contributo, affinché appunto se ne parlasse ancor di più e crescesse l’attenzione pubblica. E sia nel teatro che nel fumetto così è stato, in effetti. L’augurio è che adesso ci possa essere ancora e sempre più attenzione, soprattutto da parte delle istituzioni, alla tutela dei diritti delle badanti le cui condizioni di lavoro sono un po’ migliorate negli ultimi anni anche grazie alla nascita dei sindacati di settore che garantiscono contratti stabili, orari di lavoro e tempo libero. Ma purtroppo ancora troppo alto è il numero delle lavoratrici in nero, quelle che lavorano 24 ore su 24, una condizione che, se prolungata per anni – abbiamo visto – non può non lasciare cicatrici interiori. Attenzione pubblica anche però all’altra parte, alle famiglie, che all’improvviso, loro malgrado, si ritrovano datrici di lavoro senza avere gli strumenti adeguati e soprattutto senza alcun sostegno economico da parte dello Stato.
E: Io sinceramente non me lo aspettavo, per quanto fosse un argomento importante e attuale. Quello che più ho apprezzato è stato l’interesse da parte del settore del fumetto, perché parlare di questi temi e scegliere di farlo attraverso questo linguaggio secondo me è molto potente, e spero che questo contribuisca alla vita del fumetto in generale, dimostrando ancora la sua bellezza e la sua forza comunicativa.

Parlando del presente, quale vita vorreste che avesse il vostro lavoro? Avete pensato a incontri a tema, magari con pubblici diversi che non hanno ancora letto il vostro lavoro o con scuole?
T: Una vita più lunga e “trasversale” possibile! Certo che abbiamo pensato a incontri con pubblici diversi, in generale questo è sempre stato uno dei primi obiettivi del mio lavoro artistico. Per esempio, abbiamo fatto e faremo diverse presentazioni sia dal vivo che on line nelle Università: Venezia, Padova, Urbino, ecc. In occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne” ne abbiamo organizzata una anche con l’Università Babeș-Bolyai a Cluj-Napoca, in Romania, in collaborazione con una docente italiana che lavora lì, Patrizia Ceilidh Ubaldi. E adesso mi sto muovendo anche per portare lo spettacolo teatrale sia nelle Università che nelle scuole, quando si potrà. Spettacolo e fumetto viaggiano ormai insieme. Per me, per noi, l’incontro con le ragazze e i ragazzi, è fondamentale, è stato tra i motivi che mi ha spinto a realizzare proprio un fumetto.
E: Sono d’accordo con Tiziana, una vita lunga e aggiungo multiforme. Poiché appunto abbiamo fatto molte presentazioni e incontri tra cui “Bande de Femmes” di Tuba Bazar a Roma, “il Festival della violenza illustrata” a Bologna o ancora l’incontro con i ragazzi e le ragazze dello Spazio Arteducazione di Milano, ma ogni incontro è diverso dall’altro e si innescano situazioni sempre nuove, che trasformano una semplice presentazione in un dialogo aperto.

Infine, vorrei parlare del futuro. Per Tiziana, pensi che questa esperienza con il fumetto potrebbe ripetersi per te?
T: Perché no! Anzi, in realtà si è già ripetuta. Nel 2018, spinta sempre dal desiderio di sperimentare e mescolare nuovi linguaggi, ho proposto a Elena, allora autrice del materiale grafico dei miei spettacoli, di realizzare alcune tavole partendo dal mio spettacolo teatrale Terra di Rosa. Vite di Rosa Balistreri. È così che è nato il libro Terra di Rosa. Vite di uno spettacolo, un esperimento editoriale autoprodotto che meticcia drammaturgia e fumetto per raccontare non solo la storia della cantautrice siciliana Rosa Balistreri, ma la vera e propria genesi dello spettacolo teatrale: dalla ricerca delle fonti ai tragitti percorsi per ritrovare luoghi e volti che hanno intrecciato la vita di Rosa al mio viaggio dentro la sua storia e la Sicilia del suo tempo. Quindi diciamo che già da allora ci ho preso gusto. E se è un gusto anche del lettore, perché allora non continuare?

Invece per Elena, quali progetti ci sono in ballo per te al momento?
E: Ci metto del tempo a passare da un tema all’altro, fare un fumetto lungo è sempre molto intenso. Si può dire quindi che sto valutando alcune proposte e che sono in una fase di ricerca, lettura e ascolto. Ci sono sicuramente tanti temi che mi piacerebbe trattare, ma ci sono anche altre forme che mi piacerebbe sperimentare, anche diverse da quello che ho fatto finora, ma sempre inerenti il fumetto. Nel frattempo porto sempre avanti piccoli progetti in autoproduzione.

Isola di neve - romanzo di Valentina D'Urbano

Per tutti sull’isola lei è Neve. Sono i primi anni Cinquanta del secolo scorso e la vita sull’isola di Novembre è dura per tutti, soprattutto per la famiglia di Neve: sette figlie femmine da sfamare e un padre ubriacone. Tra fame e botte è Neve a portare a casa qualcosa da mangiare: a neanche diciott’anni va a faticare in mare come gli uomini.

Neve è piccola e forte, agile come una salamandra e selvatica, ma soprattutto tanto diversa dagli altri isolani: i capelli biondi e i tratti nordici, arrivati chissà come nel suo sangue, la rendono diversa. E bellissima. La sua vita miserabile però cambia quando sull’isolotto di Santa Brigida, la sede del carcere, arriva un detenuto affascinante. Dalla spiaggia può vedere le luci accese nelle celle, ma soprattutto può sentire la musica del suo violino. Lui è un musicista di Dresda, si chiama Andreas.

Edith ormai non ci fa più caso: da quando è arrivata sull’isola la gente guarda strano i suoi capelli con i dreadlock e i piercing sul viso. E’ il 2004 ma per l’isola di Novembre il tempo non sembra essere passato. Edith è arrivata sull’isola in inverno spinta da una sua ossessione: vuole sapere che fine ha fatto un famoso musicista tedesco di cui da cinquant’anni si sono perse le tracce… Anche lei è una musicista e la notte si esercita con il suo violino, peccato che le sue note disturbino Manuel, che a 28 anni è scappato da Roma e si è rifugiato sull’isola nella casa dove vivevano i suoi nonni per sfuggire ai suoi demoni.

La natura selvaggia, una storia d’amore e un mistero che attraversa il tempo, due donne a loro modo fuori dagli schemi sono gli ingredienti principali dell’ultimo romanzo di Valentina D’Urbano (Isola di neve pubblicato da Longanesi) la giovane scrittrice romana (Non aspettare la notte, Il rumore dei tuoi passi) questa volta si allontana dagli scenari metropolitani dei romanzi precedenti. Anche qui però racconta una vita “di periferia”, non tra i casermoni delle borgate ma tra gli scogli aspri del mediterraneo. E alla fine dolore e passioni sono sempre gli stessi.

La ragazza con la Leica - Helena Janeczek

“Ho capito che Gerda è un personaggio così forte perché passa come una stella cometa nelle vite degli amici e degli amanti; e sono gli sguardi degli altri che ne restituiscono tutto la luminescenza, tutta l’energia inafferrabile. Questa donna sapeva tirare fuori il meglio dagli altri, come accade quando ti innamori e provi energie nuove, ti senti potenziato…”. In un’approfondita intervista a ilLibraio.it, Helena Janeczek entra nei dettagli del suo nuovo libro, “La ragazza con la Leica”, parla del suo approccio alla scrittura e dei libri di oggi: “Non voglio sostenere il primato della letteratura, ma mi sembra che oggi tenda spesso a perdere fiducia nelle sue potenzialità: troviamo tante storie semplici e lineari, come sceneggiature di film non ancora scritti. Perché dovrei dedicare dei giorni a leggere un libro che non mi dà nulla in più di un film che posso gustarmi in due ore, per giunta in buona compagnia? Temo si sia creato una sorta di circolo vizioso: più siamo preoccupati che la gente non abbia più voglia né tempo per leggere, più ci affanniamo a rendere la lettura un’esperienza ‘semplificata’…”

La ragazza con la Leica ripercorre e ricostruisce la figura della prima fotografa di guerra caduta sul campo, la giovanissima Gerda Taro, attraverso gli occhi di chi l’ha più amata, a distanza di quasi trent’anni. Così, questo sguardo retrospettivo a partire dagli anni ’60 corre indietro fino alla Germania pre-hitleriana e all’Europa antifascista, in un romanzo accurato che si fa testimonianza del nostro passato e storia di una vita. ilLibraio.it ha intervistato la scrittrice, protagonista al Festival Letteratura di Mantova.

Gerda Taro “si trascinava dietro la fotocamera, la cinepresa, il cavalletto, per chilometri e chilometri. Ted Allan ha raccontato che con le ultime parole ha chiesto se i suoi rullini erano intatti. Scattava a raffica in mezzo al delirio, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri” (p. 186). Eppure se tutti conoscono Robert Capa, pochi ricordano il nome di Gerda Taro, scomparsa a soli ventisette anni sul campo di battaglia. Cosa ha significato per lei riportare in vita la sua storia in un romanzo?
“Dopo averla scoperta, a Milano, nella prima mostra monografica dedicata a lei, mi sono procurata un’ottima biografia – oggi purtroppo fuori catalogo – e ho preso contatti l’autrice, Irme Schaber, che si è dedicata anche alla ricostruzione del corpus fotografico. Infatti le foto di Capa e Gerda erano mescolate; è stato un lavoro lunghissimo riuscire a ripristinare le corrette attribuzioni, uno sforzo che,con il ritrovamento della cosiddetta ‘Valigia Messicana’ contenente buona parte dei negativi scattati da Gerda Taro con la Leica, ha compiuto un grande salto di qualità. In più ci sono tutte le ricerche che ho svolto per i personaggi meno noti: quando si parla di una figura non pubblica, è ancora più difficile avere informazioni. Ma n’è valsa la pena. Avevo chiaro sin dall’inizio che non volevo scrivere il classico romanzo biografico su Gerda, raccontare solo la storia della ragazza di Robert Capa e dell’eroica fotoreporter morta in Spagna nel 1937. Volevo raccontarla attraverso gli occhi degli altri”.

Infatti ha raccontato la vita di Gerda filtrata dal punto di vista di chi l’ha amata: Willy Chardack, innamorato di lei e testimone scettico della sua storia con Capa; l’amica di Lipsia, Ruth Cerf; Georg Kuritzkes, ex fidanzato di Gerda, impegnato politicamente nelle Brigate internazionali. Quali opportunità narrative le ha dato raccontare Gerda attraverso così tanti sguardi?
“Ho capito che Gerda è un personaggio così forte perché passa come una stella cometa nelle vite degli amici e degli amanti; e sono gli sguardi degli altri che ne restituiscono tutto la luminescenza, tutta l’energia inafferrabile. Questa donna sapeva tirare fuori il meglio dagli altri, come accade quando ti innamori e provi energie nuove, ti senti potenziato.
Gerda, pur con la sua seduttività, non è una donna fatale, è una strana creatura: figlia dei suoi anni, con molte contraddizioni, si comporta come non ci aspetteremmo dai modelli e dai luoghi comuni in cui incaselliamo le figure femminili.
In più, raccontare di lei attraverso i ricordi dei suoi amici e amori mi permetteva di approfondire che cosa significava vivere in quegli anni per dei ragazzi europei. Anche per questo non mi interessava la prospettiva che parte dal ‘mito americano’ di Capa per arrivare a Gerda”.

“Le storie, Schatzi, vanno inventate come si deve, altrimenti fanno acqua”, si legge a pagina 122. Riprendiamo questo pensiero per chiederle: come si lavora a un romanzo così complesso?
“Anche se sono approssimativa in tutti i campi della mia vita, quando si tratta di scrivere divento abbastanza ossessiva. Ho lavorato tantissimo sulle fonti, specialmente su quelle di cui parlavo prima, ma anche internet è stato di grande aiuto. Sorprendentemente, ho scoperto proprio da un sito che registra gli sbarchi degli immigrati a Ellis Island una coincidenza romanzesca: Willy, l’eterno spasimante di Gerda, è davvero sbarcato in America assieme agli amici fotografi Fred e Lilo Stein, come racconto!
Anche se il lettore non se ne accorge (e a mio parere non deve accorgersene), la ricerca attraverso le fonti mette al riparo lo scrittore dal fare un’opera di cartapesta, soprattutto quando si tratta di un romanzo storico ambientato perfino in due periodi diversi, negli anni ’60 da una parte e negli anni ’30 dall’altra. Ho voluto adottare una prospettiva soggettiva che schiva gli excursus descrittivi più tradizionali, perché tutto è interiorizzato dai personaggi, ma i tocchi rapidi per abbozzare l’ambiente devono essere sicuri. Ad esempio, c’è una scena in cui la cucina nuova della mamma di Gerda a Lipsia viene descritta come tutta nuova e bianca: sono andata a controllare se nel ’32/33 si usassero già quella cucine moderne. Una selezione dei materiali con cui ho lavorato si trova nel sito che sto curando, ‘Nel mondo di Gerda Taro’. È una sorta di ‘ipertest’ fatto d’immagini, video e musica, da affiancare alla lettura, specie dove il racconto prende spunto da una fotografia di Gerda, ma navigabile anche per dei semplici curiosi”.

Nella celebre Lettre à M. Chauvet, Manzoni scriveva: “Quando si racconta una storia a un bambino, quello non manca mai di fare questa domanda: è vero? E non si tratta di un gusto particolare dell’infanzia; il bisogno della verità è l’unica cosa che ci possa far dare importanza a tutto ciò che veniamo a sapere”. A suo parere esiste un giusto equilibrio tra i dati storico-biografici e la finzione romanzesca?
“Esiste una verità letteraria che non coincide con la realtà fattuale ed è una questione decisamente complicata. Un approccio come il mio, che narra di personaggi storicamente esistiti, ti costringe a portare rispetto, come se loro fossero persone in carne ed ossa che vorresti conoscere. Come nella vita reale, quando vuoi conoscere qualcuno metti in gioco anche del tuo. Ti protendi verso l’altro per attingere alla sua unicità e, intanto, impieghi gli strumenti che hai a disposizione: le tue esperienze passate, le tue letture, la tua immaginazione… Alla fine impari qualcosa che non è già tuo fin dall’inizio, ma al tempo stesso ti fa scoprire a poco a poco quanto di te stessa hai messo dentro nel tuo libro. In più il lavoro di ricerca, specie il tuffo negli archivi, per me è appassionante come una sorta di caccia al tesoro. Due personaggi molto di contorno me li sono inventati di sana pianta, ma tante vicende che ho scoperto e ho avuto modo di inserire, mi hanno confermato che la realtà ne sa più della fantasia”.

“In fin dei conti, con Gerda, non aveva messo al mondo che se stesso: Robert Capa” (p. 126). Quali aspetti del legame tra i due fotografi ha voluto narrare?
“Per ritornare al grande tema della verità letteraria: come potevo concepire una narrazione ‘fedele’ a Gerda e Capa, due ragazzi che si sono letteralmente inventati, come se fossero personaggi di un romanzo o di un film hollywoodiano? Con un libro, mi sono detta, che si prendesse la licenza di mescolare dati reali e finzione, come facevano loro due, vale a dire un romanzo. Gerda Taro è infatti lo pseudonimo di Gerta Pohorylle, mentre Robert Capa deve il suo nome d’arte proprio a Gerda: i due erano alla ricerca di un nome che suonasse meglio dell’anagrafico Endre Friedmann, e di una storia che conferisse a quello pseudonimo un’identità affascinante…”

“Quanta gente ha visto prima di morire? Un numero molto maggiore di quanti ne ha immortalati” (p. 185): un fotoreporter è uno specchio del mondo che racconta o un interprete?
“Un fotoreporter intende farsi specchio e testimone della realtà che incontra, Capa e Taro volevano per giunta spendersi per la causa della Repubblica spagnola. Usavano la fotocamera senza nessuna intenzionalità soggettiva, ma alla fine si mettono dentro ai loro scatti, perché ogni occhio è diverso dall’altro, perché nel clic c’è sempre l’incontro tra il soggetto e il mondo. Fotografare in zone di conflitto, tra l’altro, è un lavoro con un forte impatto psichico. Ormai ci sono studi e testimonianze che ci dicono chiaramente quanto il mestiere del fotografo di guerra sia foriero di traumi, oltreché pericoloso, ieri come oggi. Pochi giorni fa, in Sudan, è morto Christopher Allen, un free-lance americano di appena 25 anni. Credo che molto di ciò che ci è stato raccontato su Capa e che ha contribuito a creare il suo mito (l’uomo che beve, che gioca e non si lega da nessuna parte e a nessuna donna), rimandi a una sintomatologia precisa che oggi ricondurremmo in buona parte a quelle esperienze, nonché al trauma della morte di Gerda). Del resto, lo diceva già Capa stesso che fotografare scene di guerra è una professione che non ti lascia indenne: tu vai a testimoniare gli orrori, non intervieni se non con la tua fotocamera, e poi prendi un aereo e torni alla tua realtà. Come è possibile rientrare nella propria vita, senza sentirsi lacerati?!”.

La Grande Storia è stata più volte al centro della sua scrittura, ibridandosi anche con l’autobiografia, come in Lezioni di tenebra. Quali compiti pensa che spettino alla rievocazione storica, romanzata o meno, oggi?
“Molti scrittori oggi si occupano di custodire e diffondere particolari momenti storici. Quando ho iniziato a scrivere questo romanzo, facevo spesso viaggi verso Monaco per motivi familiari ed era il periodo in cui l’Europa è stata raggiunta dalla crisi economica. Seguivo la crisi greca dalla Germania e provavo angoscia pensando alla storia di questo Paese; intanto mi occupavo del formarsi di Gerda in una Germania degli anni della grande disoccupazione, che hanno prodotto l’ascesa del nazismo. Sentivo che c’era qualcosa di molto attuale, purtroppo, in quel passato che stavo raccontando. Più andavo avanti nei sei anni di gestazione di questo libro (cinque da quando ho cominciato a scriverlo) e più i punti di contatto con l’oggi si sono rafforzati. Le ostilità e difficoltà che Gerda e i suoi amici incontrano in Francia, dov’erano profughi, certe immagini delle milizie spagnole quasi identiche a quelle delle combattenti curde in Siria, dove, in maniera ancora più feroce, i civili sono le principali vittime della guerra.
D’altro canto, è difficile parlare del nostro presente; ho sentito un caro amico e bravissimo scrittore, Davide Orecchio, dare una risposta molto bella sulla scelta di narrare il passato: oggi è come se noi fossimo in una specie di stasi; tornare indietro è un modo per prendere una rincorsa lunga per cercare di superare l’impasse di un presente così privo di orizzonti. Di recente ho anche letto le bozze del romanzo di Francesca Melandri (con cui dialogherò a Pordenonelegge), Sangue giusto, che è un grande lavoro sul colonialismo italiano. Mi fa piacere che tante persone si prendano cura di un pezzo di storia che ha ancora da porci tante domande”.

Dunque, raccontare la storia attraverso un obbiettivo fotografico e attraverso una penna: esistono punti in comune? E quali sono le differenze principali?
“La fotografia fissa un attimo ed è come se scavalcasse il tempo. La letteratura, anche se arranca oggi nel competere con tutte le narrazioni per immagini (anche film e serie tv), nella sua astrattezza – piccoli segni neri su un supporto bianco – ha la capacità di giungere dove il visibile non arriva. Con il nostro mezzo, così povero, noi scrittori possiamo prenderci delle libertà enormi. Un libro può tratteggiare l’evoluzione dei personaggi alla pari delle serie tv più acclamate. Ad esempio, ho finito in questi giorni Exit West di Mohsin Hamid (Einaudi, 2017): con una narrazione semplice come una favola, riesce a creare uno dei libri più forti e letterariamente belli sull’emigrazione di questi anni; con due protagonisti comuni, Saeed e Nadia, tratteggiati in modo perfetto; e con il ricorso al fantastico che rende ancor più spaventosa e reale l’attualità. Uno scrittore può fare in centocinquanta pagine ciò che, tradotto in film, richiederebbe dei mezzi tecnici e delle risorse produttive spaventose.
Inoltre c’è un’altra differenza sostanziale: la letteratura richiede l’immaginazione, per qualsiasi tipo di racconto (realista o fantastico che sia), mentre il mondo sovraffollato dalle immagini tende a impoverire la capacità di immaginare, che porta con sé non solo il vedere, ma anche il sentire, perché richiede la collaborazione del lettore nell’elaborare le parole sulla carta.
Non voglio sostenere il primato della letteratura, ma mi sembra che oggi tenda spesso a perdere fiducia nelle sue potenzialità: troviamo tante storie semplici e lineari, come sceneggiature di film non ancora scritti. Perché dovrei dedicare dei giorni a leggere un libro che non mi dà nulla in più di un film che posso gustarmi in due ore, per giunta in buona compagnia? Temo si sia creato una sorta di circolo vizioso: più siamo preoccupati che la gente non abbia più voglia né tempo per leggere, più ci affanniamo a rendere la lettura un’esperienza ‘semplificata’. Così spesso rafforziamo l’orizzonte d’attesa che dai libri si aspetta talmente poco che, alla fine, ne può volentieri fare a meno. Ecco, penso sinceramente che non facciamo, alla lunga, un buon servizio alla sopravvivenza della letteratura se non cerchiamo di coltivarla in tutte le sue forme – lineari o complesse – che la rendono un piacere o un arricchimento insostituibili”.

La breve eppure intensa vita di Gerda, l’ottimismo controbilanciato da un grande pragmatismo, la sua bravura ad adattarsi anche in contesti prettamente maschili, la sua capacità di dissimulare incertezze e delusioni, l’istinto di cronaca e, quasi certamente, la sua attrazione del pericolo… Questi e tanti altri aspetti di lei, cosa potrebbero comunicare alle ragazze di oggi?
“Staremmo meglio, forse, se fossimo tutte un po’ dotate della stoffa di Gerda, e non solo le ventenni, noi donne in generale! Anche con i suoi lati d’ombra, lei esprime un’infinita voglia di vivere, la capacità di risollevarsi sempre. Gerda non si è mai sentita vittima della sorte. Gerda sa quel che vuole, con grande determinazione, al contrario di altri personaggi che girano intorno a lei, che, pur condividendo gli stessi ideali, risultano talvolta persino schiacciati dai sentimenti che nutrono nei suoi confronti. Ma tutti i personaggi di questa storia, persino i più timidi e gregari, hanno voglia di starsi vicini, di non lasciarsi rubare le cose in cui credono, di non arrendersi alle circostanze. E sanno ancora divertirsi, amare, vivere giorno dopo giorno. Rispecchiarsi in questi ragazzi spero possa trasmettere un po’ di gioia, energia e fiducia: per me, almeno, è stato così”.

Tasmania - Paolo Giordano

(tratto da un'intervista rilasciata a quotidianopuglia.it)

Paolo Giordano è a quarant’anni una delle voci letterarie più autorevoli d’Italia. Dal suo esordio letterario con La solitudine dei numeri primi, che nel 2008 gli valse il Premio Strega, alla progressiva estensione del campo d’azione in ambito letterario e giornalistico. Memorabili i suoi podcast sull’Italia durante la pandemia, viaggio tra i corpi che si ammalano ma anche nella società colpita, con una puntata dedicata al doloroso parallelo tra pandemia e Xylella fastidiosa in Puglia.

Giordano, il festival Armonia porta in periferia un po’ di “polvere di stelle” dello Strega, legata a quello che oggi è il principale festival dedicato alla letteratura italiana. Quanto peso hanno nel panorama della scrittura premi come questo, se vogliamo un po’ mainstream?
«Io penso che oggi abbia ancora più peso, sicuramente in termini relativi, nell’imporre dei libri nel panorama commerciale. Io lo vinsi con un romanzo che se vogliamo era già un successo commerciale ma il Premio Strega può fare la differenza nella vita di un libro. E facendo parte del comitato ormai da alcuni anni, ho notato quanto sia cresciuto l’interesse di accedere al premio. Soprattutto oggi che con la formula itinerante permette di far conoscere gli autori e i loro libri».

Dialogherà con Mario Desiati, premio Strega di quest’anno. Autore affermato ma anche con una grande attitudine all’animazione e allo scouting. La Puglia negli ultimi anni ha dato un contributo notevole in questo senso, la vecchia perifericità è superata?
«È vero, Desiati ha sempre avuto una grande vocazione per lo scouting, ha molto fiuto. E la Puglia nelle decadi recenti è stata teatro di una contraddizione interessante: è un vivaio eccezionale di scrittori e scrittrici rispetto al resto d’Italia, ha una enorme densità di eventi che noi scrittori battiamo tantissimo. Ma presenta anche dei dati sugli indici di lettura piuttosto bassi. E questa è una divaricazione interessante».
Una terra in cui si legge poco come fa a scrivere tanto?

«A mio avviso alcune esperienze politiche più recenti, come quella vendoliana, hanno posto le condizioni per una crescita culturale diffusa i cui risultati hanno poi dato i loro frutti in vari settori culturali».

Il suo ultimo libro, Tasmania, è uscito alla fine del 2022. Ed è stato subito libro dell’anno, (secondo «la Lettura»). Rispetto ai romanzi precedenti la sua voce è stata accolta da tutti come più matura, in grado di abbracciare quello che come esseri umani ci sta accadendo in questo particolare momento storico. Ci si ritrova?

«Questo era lo scopo esplicito che mi ero posto con Tasmania, una delle espressioni che avevo in testa mentre scrivevo era “Spirito del tempo”, un concetto molto sfuggente: si può pensare che ci sia o meno. Ma io penso che esista lo spirito dei tempi. O almeno che esista quello di alcuni tempi e il tempo in cui il libro è ambientato mi sembrava molto chiaro: il periodo immediatamente prima della pandemia e poi con la sensazione dell’immediatamente dopo. Questo spirito del tempo in realtà è proprio l’oggetto del romanzo, quello attorno a cui si muovono tutte le storie. Ovviamente puoi solo cercare di circoscriverlo, in un certo senso come una delle nuvole di cui parla il libro, che nel momento in cui cerchi di ingabbiarlo in modo troppo specifico ti rendi conto che è un pensiero gassoso».

Terrorismo, COVID, minaccia atomica e disastro climatico sembrano dialogare con la crisi personale dei protagonisti. In tanti hanno rintracciato in questo approccio complesso una certa eredità della sua formazione da fisico. C’è bisogno di abbandonare la linearità della narrazione?

«Io non so se ci sia bisogno di abbandonare la linearità, che in realtà a me manca molto come punto di appoggio. Ma sicuramente mi sono reso conto, ragionando su Tasmania e poi scrivendo, che sentivo la necessità, legata all’idea dello spirito del tempo di cui parlavo, di passare da una struttura verticale in cui tutto ha una certa gerarchia, a partire dalla struttura dei romanzi suddivisi in personaggi ed eventi più o meno importanti, a una struttura orizzontale. Ecco, mi sembrava che tutta questa verticalità nelle nostre vite del presente fosse un po’ stata frantumata e l’immagine che mi tornava alla mente era quella che poi è ricorrente nel libro, delle macerie. In particolare della città di Hiroshima, che viene in un momento livellata. E ho pensato chissà se si può fare un romanzo in maniera orizzontale, muovendosi senza una geografia così prestabilita. Infatti in Tasmania il modo in cui i personaggi scompaiono, ritornano, in cui le relazioni sono interrotte e poi riprese, segue un po’ questo errare tra le macerie».

Il COVID è una tematica a cui lei si è molto dedicato. Dall’instant book Nel contagio ai podcast. Fa capolino anche in Tasmania ma lei ha recentemente detto che con i giusti tempi di elaborazione bisognerà occuparcene anche in termini di “lascito”. La scia del covid insomma avrà bisogno di una grande elaborazione collettiva?

«È inevitabile, a meno di non decidere di saltare due anni della nostra vita collettiva. Molte forme di narrazione interessante, sia letteraria sia cinematografica, sugli anni degli attacchi terroristici stanno venendo fuori adesso. Quindi mi viene da dire che questo sarà il tempo necessario a un’elaborazione più profonda e meno reattiva e quindi meno ovvia».
Lei è riuscito a dare voce a timori contemporanei, da cui la letteratura italiana a volte sembra rifuggire per concentrarsi sugli aspetti più intimi. Crede che ci sia un’urgenza di dibattito ancora inespressa?

«La crisi climatica è certamente tra le tematiche più urgenti da affrontare, perché lo si fa solo nel momento emergenziale e questo è il problema del dibattito. Chi invece cerca di affrontarlo in maniera sistemica, che sono per lo più le giovani generazioni, viene irriso o accusato. Il passaggio fondamentale sarebbe smettere di trattare la crisi ambientale come un elemento di distopia, come se fosse uno scenario eventuale invece che un elemento esistente. E poi in generale credo che occorrerebbe discutere dei temi, come la sanità o la scuola, le carceri, in maniera politicamente meno polarizzata».

In Italia si è riacceso il dibattito sulla cosiddetta egemonia culturale, penso alle tante polemiche mediatiche ma anche a quello che sta accadendo in Rai o quando a febbraio si è trattato di scegliere il successore di Nicola Lagioia alla direzione del Salone del Libro per cui lei era in lizza. Crede che sia fisiologico il tentativo di una classe dirigente di legittimarsi culturalmente?

«Il concetto di legittimità è un piano che secondo me non ha nulla a che fare con la cultura, che per come l’ho sempre sperimentata si costruisce creando delle opere con una loro validità e universalità. Con il loro modo di guardare il tempo in un intervallo più ampio di quello in cui siamo trascinati quotidianamente dalle polemiche di piccolo cabotaggio. L’idea che si crei una egemonia o controegomonia per occupazione di luoghi e di spazi non sono così naif da non capirlo la trovo aliena alla produzione di buona cultura e di buon dibattito. Dall’altra parte trovo anche che sia deprimente l’idea di opposizione partitica e spartizione e occupazione di tutte le aree perché questo impoverisce tutti: immettere il pensiero che tutti noi scriviamo o produciamo cultura perché siamo organici a un sistema politico è alquanto svilente».