(tratto da lospaziobianco.it)
Una vita scissa, anfibia, fatta di privazioni, sofferenze e senso di sdradicamento. Una testimonianza importante, non documentaristica ma profondamente umana, di quella malattia chiamata, beffardamente, Sindrome Italia. Lo so, non ci si dovrebbe autocitare, ma penso che il sunto di Sindrome Italia di Tiziana Francesca Vaccaro e Elena Mistrello sia ben sintetizzato in queste parole. Un racconto dell’esperienza vissuta da migliaia di badanti che vivono in Italia ma che spesso sono ancora invisibili ai nostri occhi, spesso trattate con sufficienza e pregiudizi. Con quest’opera le due autrici hanno spalancato una finestra su questo tema con delicatezza ma anche onestà, ottenendo grande riconoscimento di pubblico e critica.
Le abbiamo intervistate per parlare del loro incontro, del loro lavoro e del futuro della loro opera.
Ciao Tiziana e ciao Elena, grazie per il vostro tempo. Vorrei partire da Tiziana, perché, prima di essere un fumetto, Sindrome Italia è stato uno spettacolo teatrale nato all’interno di un progetto rivolto proprio a donne dell’est che fanno o facevano le badanti. Come è nato il progetto?
Tiziana Francesca Vaccaro: Era il 2018. Stavo cercando materiale per scrivere il mio prossimo spettacolo teatrale. Cercavo storie che potessero ispirarmi. Le mie vicine di casa, nell’appartamento proprio accanto al mio, abitavano tutte insieme, tutte ucraine, tutte badanti. Una di loro per qualche tempo si è presa cura di me, mi faceva una puntura al giorno per un problema di salute. E tra una puntura e l’altra, mi raccontava pezzi della sua vita, soprattutto del suo lavoro in Italia e della fatica che era sempre tanta. Parlava con gli occhi bassi, lucidi, scavati dalla stanchezza. Ho deciso che volevo saperne di più, che valeva la pena raccontare queste storie così potenti eppure così invisibili, e ho iniziato a documentarmi. Ho scoperto che a Milano, città in cui vivo, c’era l’Associazione Donne Romene in Italia e che l’attivista e fondatrice Silvia Dumitrache si riuniva con alcune di queste donne in Cascina Cuccagna. L’ho contattata, si è dimostrata subito gentile e disponibile, ci siamo incontrate qualche giorno dopo. È lei che mi ha parlato per la prima volta del fenomeno medico-sociale “Sindrome Italia”. Da quell’incontro ho sentito il desiderio e un senso forte di responsabilità come artista di raccontare senza filtri questo pezzo del nostro tempo, della nostra storia. Perché fa parte di tutti noi, di tutti quelli che lasciano il proprio paese e che, nel paese in cui arrivano, un paese straniero, si trasformano.
Passando al fumetto, come hai pensato di trasporre lo spettacolo proprio in questa forma? Come si è svolto il vostro lavoro insieme?
T: Da amante delle sperimentazioni, degli ibridi, delle miscele di linguaggi, ho iniziato un giorno a vedere la storia di Vasilica disegnata. A vederla nitidamente, vignetta dopo vignetta. Ho pensato che i disegni in questa storia potessero raccontare anche più delle parole e che portassero un linguaggio forte, più immediato, per arrivare a quella fetta di pubblico che a volte (non sempre, per fortuna) in teatro fai fatica a raggiungere: le ragazze e i ragazzi. Elena, con cui ho avuto modo di collaborare anche in altri lavori precedenti, ha subito sposato il progetto. Prima di mettere nero su bianco, per me autrice di testi teatrali e nuova al graphic novel, ho studiato sceneggiatura, come sempre ogni volta che mi avvicino a un nuovo linguaggio. L’ho studiato a fondo, volevo e dovevo conoscerlo bene. Elena mi ha chiesto subito di non suddividere la sceneggiatura per vignette ma solo per tavole, affinché si sentisse più libera nelle sue visioni, di cui mi sono fidata ciecamente. A quel punto è partito un altro viaggio ancora, in cui hanno preso vita le rane, l’acqua, i colori. Elena si nutriva delle mie parole, dei miei racconti e la sceneggiatura delle sue visioni: man mano che i disegni prendevano vita, cambiavano anche le parole, le scene. A un certo punto tutto si è fuso. Elena è stata molto brava a seguirmi, a entrare dentro la storia come se fosse sua, tanto che poi alla fine lo è diventata. Una volta dentro completamente, si è lasciata andare allo stile che emotivamente l’avvicinava di più al personaggio. Io insistevo molto sulle espressioni del volto, sugli sguardi, sui più piccoli dettagli che ero certa avrebbero fatto poi la differenza nella narrazione della storia. Lei si è fidata completamente, con una dedizione totale e commovente.
Beccogiallo è molto attento a questo genere di storie, focalizzate sull’attualità e sulla società. Avete sviluppato il progetto fin dall’inizio con questo editore?
T: Sì. Quando abbiamo proposto il progetto, devo dire che c’è stato subito grande entusiasmo e un forte slancio. Elena aveva già felicemente collaborato con la casa editrice, per cui la fiducia nei suoi confronti era totale. E devo dire che hanno fatto presto a fidarsi anche di me!
Elena Mistrello: Confermo quello che ha scritto Tiziana, Beccogiallo ci ha dato molta fiducia, e ci ha seguito lungo tutto il processo lasciandoci comunque piena libertà.
La storia si muove su piani temporali diversi, alternando flashback e flashforward. Come siete arrivate a questa scelta narrativa?
T: A livello di struttura il racconto non ha un andamento temporale lineare perché i viaggi di Vasilica sono due: l’andata verso l’Italia e il ritorno in Romania. E il suo percorso è sempre sottoposto al meccanismo della memoria, che c’è nel mezzo, prima e dopo. La memoria è un fattore fondamentale attorno a cui ho riflettuto molto durante la stesura del testo teatrale e ancor prima mentre raccoglievo la storia di Vasilica, il cui racconto, infatti, non era mai veramente lineare. Ricordo che a volte perdeva il filo, tornava indietro o si chiedeva addirittura se quel pezzo di vita l’avesse veramente vissuto o solo immaginato. Ecco perché ho deciso di intitolare lo spettacolo teatrale “Sindrome Italia. O delle vite sospese”: le vite delle donne come Vasilica vivono in questo stato di sospensione, sia spaziale, tra il paese d’origine e quello di arrivo, sia temporale, tra un passato che è ricordo, nostalgia e un futuro che è sogno, utopia. In mezzo c’è il presente, un tempo non vissuto mai realmente perché sempre impiegato a desiderare qualcos’altro. Quindi quando si è trattato di rendere questa sospensione o, se preferite, questo disordine spazio-temporale, anche nel fumetto, non ho avuto dubbi. L’unico modo per raccontare bene qualcosa per me è viverla e farla vivere anche al lettore.
Quale è stata la testimonianza più difficile da ascoltare e da rappresentare, e quale quella più sorprendente?
T: La cosa più difficile per me è stata raccogliere tutti i racconti sui figli: il dolore, la pena, lo strazio di non poterli più vivere, di lasciarli da bambini, ancora piccoli e bisognosi della loro mamma, e di ritrovarli dopo tanti anni uomini e donne, quasi irriconoscibili. Quando ho iniziato a scrivere il fumetto, aspettavo mio figlio. Nonostante avessi già attraversato quel pezzo di storia nello spettacolo teatrale, riviverlo con un bimbo in grembo, è stato ancor più doloroso. La testimonianza più sorprendente invece riguarda la fame: non avrei mai immaginato che queste donne, che lasciano il proprio paese perché (letteralmente) “non hanno più niente da mettere a tavola”, in cerca di condizioni di vita migliore, una volta in casa dell’assistito, si ritrovano a soffrire ancora quella fame, a mangiare troppo poco e a vergognarsi di chiedere di più, perché il loro corpo ha bisogno per lavorare 24 ore su 24.
E: Come si può dedurre dalle prime domande, il progetto è nato da Tiziana la quale successivamente ha deciso di adattarlo per il fumetto. Io sono arrivata dopo, quando la sceneggiatura era già scritta. Abbiamo lavorato insieme alla scrittura dello storyboard, attraverso continue condivisioni e suggestioni, ma al lavoro di ricerca e raccolta delle testimonianze io non ho partecipato. Quando ho letto la storia quindi ci ho messo del tempo per entrarci ed è stato fondamentale farlo attraverso gli occhi di Tiziana. Ricordo che alle prime letture c’erano tanti aspetti che mi avevano colpita, uno tra questi è sicuramente quello della fame.
Ma al di là della storia, la cosa più sorprendente per me alla fine è stato l’intera testimonianza di Vasilica, la sua lucidità e consapevolezza mi hanno davvero cambiata lungo tutta la scrittura del fumetto. Quando poi l’ho conosciuta di persona mi sono resa conto che il processo che aveva innescato Tiziana, ovvero questa modalità di raccontare tessendo legami con chi parla della propria esperienza, mi è sembrato molto forte ed è quello che da senso al nostro lavoro secondo me.
Dal punto di vista grafico, il segno di Elena è composto da poche linee e molto solide. Quali sono le ispirazioni di questo stile?
E: Ho avuto un lungo periodo di indecisione sullo stile da usare per questo fumetto, sono passata da colori ad acqua a tecniche miste fino al digitale. Alla fine però si trattava del mio primo fumetto lungo e mi serviva uno stile familiare che mi accompagnasse per tutte le tavole. Inoltre come già accennato, la storia era un po’ complessa e avevo necessità di renderla più diretta e chiara, senza appesantirla ulteriormente. In quei mesi ho attinto da diversi fumetti, ricordo di aver riguardato Persepolis di Marjane Satrapi che è rimasto incastonato nella mia memoria per via del suo tratto essenziale ma fortissimo, ma anche Bellezza di Kerascoet e Hubert nel quale invece cercavo il segreto per la bicromia perfetta (non l’ho trovato ma è stato utile). Avevo riguardato anche Come prima di Alfred per la libertà che ha nel passare da uno stile all’altro, una libertà che ammiro e che mi piacerebbe acquisire un giorno. In quei mesi era uscito anche Ombelico infinito di Dash Shaw, dove ho trovato tra l’altro una rana antropomorfa ma anche diverse suggestioni di tratto e scelte grafiche molto belle ed efficaci in quel tipo di narrazione lunga e monocroma. Ciclicamente mi riguardo David B. che mi insegna sempre tanto sull’utilizzo del bianco e nero e sulla capacità di mischiare il mostruoso col quotidiano. Con Tiziana invece abbiamo riletto diversi fumetti alla ricerca di equilibri tra testo e immagini, tra questi sicuramente il bellissimo Heimat di Nora Krug, dove i lunghi testi non pesano mai e sono integrati in maniera pazzesca con il disegno.
Potrei continuare perché sono tante le influenze, ma direi che può bastare. Per concludere alla fine sono ritornata a questo stile (le tavole sono disegnate a mano e la colorazione è digitale) con cui mi sento a mio agio e che sento mio, che mi ha permesso di concentrarmi a pieno sulla narrazione.
La trasformazione di Vasilica in una rana, arrivando a mangiare poi i suoi stessi figli (richiamo alla famosa tela Saturno che divora i suoi figli di Francisco Goya) è forse il momento visivamente più potente dell’intera storia. Come è nata questa immagine nelle vostre teste?
T: L’immagine mostruosa mi è sempre stata chiara e in qualche modo è presente anche nello spettacolo, seppur in scena non è che mi trasformi letteralmente in mostro, ma il corpo e la voce, ciò che dico, qualcosa di mostruoso lo evocano sicuramente. Quando ho raccontato a Elena che per me in quelle scene lei doveva diventare un mostro, una che divora e si divora, è arrivata subito l’idea di una rana enorme, quasi deforme. La rana era già presente nel racconto, in altre forme (penso per esempio alle rane con cui giocava Vasilica da bambina) quindi la trasposizione mostruosa ci è sembrata un passaggio giusto, naturale.
Più in generale, l’idea della rana è arrivata quasi per caso, quando ero ancora in creazione del testo dello spettacolo. Un giorno mi è capitato di leggere il “principio della rana bollita” di Noam Chomsky, in cui si racconta di una rana che nuota tranquilla dentro un pentolone d’acqua tiepida, fino a quando questa non arriva a temperature altissime e la rana finisce morta bollita. E che se l’acqua fosse stata bollente sin dall’inizio, la rana, con un colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone. Una metafora per descrivere la pessima capacità dell’essere umano di adattarsi a situazioni spiacevoli e deleterie senza reagire, se non quando ormai è troppo tardi. Da lì ho iniziato a studiare epertologia, scoprendo delle cose interessantissime sulle diverse varietà di rane e quanto ognuna di queste assomigli a noi esseri umani in maniera impressionante. Nel mio caso, quindi, il paragone con la rana è stato duplice: come le rane in generale, in grado di vivere sia sull’acqua che sulla terraferma, Vasilica subisce una vera e propria trasformazione, o meglio metamorfosi: si adatta, resiste, sopporta. Come la rana del principio di Chomsky, Vasilica non riesce a uscire dalla gabbia in cui si trova, e si ammala fino a non riconoscersi più.
E: La rana era già presente nella sceneggiatura, nella mia testa ha dovuto solo essere visualizzata. Dal canto mio ho cercato di avvicinarmi il più possibile al “mostruoso” ricercato da Tiziana, questo passaggio è stato uno degli aspetti più interessanti della stesura del fumetto. Perché essendo fantastico era un terreno quasi comune, uno spazio emotivo e non solo una testimonianza di vita vissuta.
Anche il colore gioca un ruolo narrativo importante, scandendo i passaggi temporali. Come sono stati scelti i colori che accompagnano le varie fasi della vita di Vasilica?
T: L’idea di usare almeno due colori per permettere al lettore di muoversi più agilmente nella storia è stata subito chiara. Due colori ad acqua, quelli che ci piacevano e ci “raccontavano di più”: giallo per la Romania, il tempo passato ma anche e di nuovo il presente; verde per l’Italia, il lavoro, la sindrome. Per poi fondersi insieme in un ipotetico futuro, la speranza di una vita migliore, chissà.
E: Come ha già scritto Tiziana la storia era basata su questi salti temporali e si basava proprio su questo continuo spostamento che era anche geografico. È stato importante far si che ogni passaggio fosse chiaro per chi leggesse, per questa ragione abbiamo scelto una bicromia semplice e contrastante. Questi due colori e le loro piccole variazioni, i passaggi e il loro interagire a vicenda contribuiscono alla narrazione e addirittura in alcuni passaggi riescono a raccontare piccole sfumature che aumentano l’intesa del testo e del disegno. Il colore infatti non racconta solo il passaggio temporale e geografico ma anche il sentimento di sospensione, il momento in cui Vasilica non è in Italia ma non è neanche in Romania.
Immagino che Vasilica abbia letto il volume, così come altre donne con la stessa esperienza. Quali sono state le reazioni e il feedback?
T: Vasilica mi ha detto che le è sembrato strano rivivere la sua storia dentro un fumetto, vedersi la vita disegnata, specchiarcisi dentro. Si è emozionata, ha riso, ha pianto. Non so quante altre donne con la stessa esperienza siano riuscite a leggerlo. Sicuramente so che molte persone, nonostante non abbiano mai lavorato come badanti, si sono comunque ritrovate in alcuni frammenti, soprattutto quelli legati a certe dinamiche di relazione, alla solitudine, al dolore per il distacco dai figli. In fondo sono dei sentimenti universali in cui tanti di noi si riconoscono. Altre persone ancora mi hanno detto che non pensavano che dietro il volto e il corpo di una “badante” ci fosse una storia così forte e complessa, e alla fine mi hanno ringraziata perché, leggendo, sono riuscite a superare alcuni stereotipi e andare al di là di qualche pregiudizio. Qualcun altro ancora, ritrovatosi suo malgrado dall’altra parte, nel ruolo di datore di lavoro, mi ha detto che finalmente ha trovato delle risposte ad alcuni atteggiamenti della badante della propria madre che non comprendeva e il loro rapporto adesso è molto migliorato. Questi sono dei bei risultati, una soddisfazione per me, per noi.
Il feedback dei siti specializzati ma anche di stampa generalista e lettori è stato molto grande, nonostante un tema poco trattato e spinoso per l’opinione pubblica, di cui spesso si parla per luoghi comuni. Vi aspettavate questa attenzione? E come pensate che questa vostra opera possa inserirsi nel discorso pubblico?
T: In parte sì, mi aspettavo questa attenzione proprio per il tema nuovo e mai veramente indagato a fondo, nel campo dell’arte s’intende. Di Sindrome Italia si parla solo da qualche anno. Penso ai reportage di Francesco Battistini per il Corriere della Sera, anche qui con l’aiuto di Dumitrache, o ancora quello su “Alias”, l’inserto de Il Manifesto, e quello dopo ancora su L’Espresso. Andando più indietro ancora mi viene in mente il documentario che aveva mandato in onda la Rai. Nel campo della formazione diverse ricercatrici universitarie – Raffaella Sarti, Francesca Vianello, per citarne qualcuna – hanno scritto di migrazione femminile, di diritti del lavoro, di cura. Quindi sentivo che anche l’arte in qualche modo potesse e dovesse dare un forte contributo, affinché appunto se ne parlasse ancor di più e crescesse l’attenzione pubblica. E sia nel teatro che nel fumetto così è stato, in effetti. L’augurio è che adesso ci possa essere ancora e sempre più attenzione, soprattutto da parte delle istituzioni, alla tutela dei diritti delle badanti le cui condizioni di lavoro sono un po’ migliorate negli ultimi anni anche grazie alla nascita dei sindacati di settore che garantiscono contratti stabili, orari di lavoro e tempo libero. Ma purtroppo ancora troppo alto è il numero delle lavoratrici in nero, quelle che lavorano 24 ore su 24, una condizione che, se prolungata per anni – abbiamo visto – non può non lasciare cicatrici interiori. Attenzione pubblica anche però all’altra parte, alle famiglie, che all’improvviso, loro malgrado, si ritrovano datrici di lavoro senza avere gli strumenti adeguati e soprattutto senza alcun sostegno economico da parte dello Stato.
E: Io sinceramente non me lo aspettavo, per quanto fosse un argomento importante e attuale. Quello che più ho apprezzato è stato l’interesse da parte del settore del fumetto, perché parlare di questi temi e scegliere di farlo attraverso questo linguaggio secondo me è molto potente, e spero che questo contribuisca alla vita del fumetto in generale, dimostrando ancora la sua bellezza e la sua forza comunicativa.
Parlando del presente, quale vita vorreste che avesse il vostro lavoro? Avete pensato a incontri a tema, magari con pubblici diversi che non hanno ancora letto il vostro lavoro o con scuole?
T: Una vita più lunga e “trasversale” possibile! Certo che abbiamo pensato a incontri con pubblici diversi, in generale questo è sempre stato uno dei primi obiettivi del mio lavoro artistico. Per esempio, abbiamo fatto e faremo diverse presentazioni sia dal vivo che on line nelle Università: Venezia, Padova, Urbino, ecc. In occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne” ne abbiamo organizzata una anche con l’Università Babeș-Bolyai a Cluj-Napoca, in Romania, in collaborazione con una docente italiana che lavora lì, Patrizia Ceilidh Ubaldi. E adesso mi sto muovendo anche per portare lo spettacolo teatrale sia nelle Università che nelle scuole, quando si potrà. Spettacolo e fumetto viaggiano ormai insieme. Per me, per noi, l’incontro con le ragazze e i ragazzi, è fondamentale, è stato tra i motivi che mi ha spinto a realizzare proprio un fumetto.
E: Sono d’accordo con Tiziana, una vita lunga e aggiungo multiforme. Poiché appunto abbiamo fatto molte presentazioni e incontri tra cui “Bande de Femmes” di Tuba Bazar a Roma, “il Festival della violenza illustrata” a Bologna o ancora l’incontro con i ragazzi e le ragazze dello Spazio Arteducazione di Milano, ma ogni incontro è diverso dall’altro e si innescano situazioni sempre nuove, che trasformano una semplice presentazione in un dialogo aperto.
Infine, vorrei parlare del futuro. Per Tiziana, pensi che questa esperienza con il fumetto potrebbe ripetersi per te?
T: Perché no! Anzi, in realtà si è già ripetuta. Nel 2018, spinta sempre dal desiderio di sperimentare e mescolare nuovi linguaggi, ho proposto a Elena, allora autrice del materiale grafico dei miei spettacoli, di realizzare alcune tavole partendo dal mio spettacolo teatrale Terra di Rosa. Vite di Rosa Balistreri. È così che è nato il libro Terra di Rosa. Vite di uno spettacolo, un esperimento editoriale autoprodotto che meticcia drammaturgia e fumetto per raccontare non solo la storia della cantautrice siciliana Rosa Balistreri, ma la vera e propria genesi dello spettacolo teatrale: dalla ricerca delle fonti ai tragitti percorsi per ritrovare luoghi e volti che hanno intrecciato la vita di Rosa al mio viaggio dentro la sua storia e la Sicilia del suo tempo. Quindi diciamo che già da allora ci ho preso gusto. E se è un gusto anche del lettore, perché allora non continuare?
Invece per Elena, quali progetti ci sono in ballo per te al momento?
E: Ci metto del tempo a passare da un tema all’altro, fare un fumetto lungo è sempre molto intenso. Si può dire quindi che sto valutando alcune proposte e che sono in una fase di ricerca, lettura e ascolto. Ci sono sicuramente tanti temi che mi piacerebbe trattare, ma ci sono anche altre forme che mi piacerebbe sperimentare, anche diverse da quello che ho fatto finora, ma sempre inerenti il fumetto. Nel frattempo porto sempre avanti piccoli progetti in autoproduzione.