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Alzarsi presto - Sandro Campani

Sgombriamo subito il campo: Alzarsi presto. Il libro dei funghi (e di mio fratello) di Sandro Campani è un libro di genere confidenziale, quasi sussurrato a se stessi in quella che sembra la migliore versione dell’autofiction – il diario intimo – ma proficuamente diretta alla natura e a chi la ama e ne riconosce l’autonomia nella libertà necessaria a qualsiasi sentimento di appartenenza. Fine della recensione.

Ora veniamo ad alcune cose utili, appunto. Iniziamo da pagina 61 e dal capitolo intitolato “Darsi del coglione”. Qui l’autore senza saperlo né volerlo (evitando, quindi, di incappare nel pericoloso neologismo mansplaining) si dispone tra i tanti che in questi giorni hanno tentato di dire qualcosa sul retrivo mondo maschile non riuscendoci se non male. Non tentando neppure, a Campani riesce la rappresentazione più efficace del genere. Cito: “Come succede agli uomini abituati a fare insieme un certo tipo di lavoro, quotidianamente, con dimestichezza, immersi nel dettaglio anche sovrappensiero, mio padre e mio fratello passano un bel po’ di tempo a darsi del coglione”. Segue elenco/lista che è davvero un istruttivo tutorial per capire il grado zero dell’educazione “maschile” (ahinoi, talvolta e/o spesso!).

Un fungo (e ancor prima un tartufo) non è solo un fungo (o un tartufo). Cito (pag. 89): “Certi funghi che hai trovato, quattro anni fa o quaranta, se chiudi gli occhi li rivedi nel dettaglio. Perché quelli, fra migliaia, non lo sai: ti ritornano in sogno, come divinità di un attimo preciso”.

Alzarsi presto è un libro scritto in lingua ma con molti prestiti dal dialetto a cesura tra il faticoso restare appenninico, quello dello spopolamento delle aree interne, e la Pianura modenese che incombe con i fumi delle sue fabbriche sassuolesi compresi di minacciosa bretella autostradale.

Alzarsi presto è un viatico all’andare per funghi (o tartufi) e, anche se non è da sottovalutare la sua capacità manualistica (riverberata in un bellissimo “Glossario sentimentale” posposto alla fine come un racconto per voci), ha poco a che vedere con la cosa in sé. In definitiva, a essere meno raffinati (la natura del titolo si capisce non nel capitolo omonimo ma nel bellissimo apologo nascosto in “La Svezia”) questo libro si poteva furbescamente, ovvero con poca fantasia, intitolare “Lo zen e l’arte di raccogliere funghi e tartufi”. Ma il rischio sarebbe stato quello di ingannare il lettore portandolo in un sentiero povero di pepite d’oro.

25 luglio 1943 - Emilio Gentile

Buon libro. Completo abbastanza scorrevole. Un po' noioso leggere tutte le citazioni di lettere dei vari gerarchi.
Però comprensibile per uno storico che non si accontenti delle solo dei racconti dei singoli protagonisti

Il Mare senza stelle - Erin Morgenstern

Il mare senza stelle è l’atteso nuovo romanzo fantasy dell’autrice Erin Morgenstern, pubblicato in Italia da Fazi editore nella collana LainYa. Sebbene questa collana sia per lo più dedicata alla pubblicazione dei cosiddetti romanzi young-adult, Il mare senza stelle non rientra agevolmente in questa categoria, essendo un libro ben più complesso, nella trama e nella costruzione.

Si tratta infatti di un romanzo formato da diversi nuclei narrativi che si alternano costantemente durante la lettura: abbiamo, da una parte, la storia del protagonista, Zachary Ezra Rawlins che si svolge nel presente ed ha una sua linearità, dall’altra troviamo una serie di racconti, fiabe, storie che, apparentemente, non hanno nulla a che fare con la vicenda principale ma che, alla fine, mostreranno di avere un senso. Il costante intrecciarsi di questi due piani narrativi, rende difficile il primo approccio a Il mare senza stelle ma, una volta superato il senso di smarrimento iniziale, si viene totalmente assorbiti dalla dimensione labirintica e onirica tipica della Morgenstern.

Il romanzo si apre presentandoci il protagonista di uno dei due filoni narrativi principali: Zachary Ezra Rawlins, uno studente specializzando in Nuovi Media con una forte passione per la lettura e i videogiochi. Di indole abbastanza solitaria, Zachary ama frequentare la biblioteca universitaria e qui, in un’ala poco frequentata, scopre un vecchio libro, non particolarmente prezioso, con la copertina di seta sulla quale non è indicato né autore né anno di pubblicazione, ma solo il titolo: Dolci Rimpianti. Tornato al dormitorio, inizia la lettura, lasciandosi affascinare da racconti di prigionieri disperati, collezionisti di chiavi e adepti senza nome. Le storie contenute in Dolci rimpianti costituiscono il secondo nucleo narrativo del nostro romanzo, con una struttura a metà tra Se una notte d’inverno un viaggiatore e La storia infinita. Come accade nel romanzo di Ende, infatti, ad un certo punto Zachary trova un racconto, in Dolci Rimpianti, riguardante un episodio della sua infanzia, quando scoprì per caso un murales di una porta, che però era anche una porta vera, e che lui non ebbe il coraggio di aprire per vedere dove conducesse.

In realtà, come avrà modo di scoprire nel corso del romanzo, quella porta conduce proprio nel Mare senza stelle, che è una sorta di mondo sotterraneo, nascosto nelle viscere della terra e visibile solo a chi sa cogliere gli indizi per poterlo trovare. Leggendo la sua storia in Dolci rimpianti, Zachary sente di dover cercare delle risposte, di dover trovare la porta e vedere finalmente cosa nasconde al di là e, una volta attraversata, si ritroverà completamente immerso in questo universo parallelo, fatto di stanze dentro ad altre stanze, come un vero labirinto, ma soprattutto fatto di storie. Il Mare senza stelle, infatti, custodisce tutte le storie del mondo, e Zachary scopre che c’è chi ha sacrificato tutto per proteggere questo regno ormai dimenticato (gli adepti di cui ha letto le storie nel volume trovato in biblioteca), trattenendo sguardi e parole per preservare questo prezioso archivio, e chi invece mira alla sua distruzione. Insieme a Mirabel, un’impetuosa pittrice dai capelli rosa, e Dorian, un ragazzo attraente e raffinato, Zachary compie un viaggio in questo mondo magico, attraverso miti, favole e leggende, alla ricerca della verità sul misterioso libro e su se stesso.

Il mare senza stelle è indubbiamente un libro difficile da leggere. Non perché la sua trama sia particolarmente complessa, anzi, se prendiamo in esame soltanto il filone narrativo che potremmo definire “Le avventure di Zachary nel sottosuolo”, tutto sommato riusciamo a ricostruire la vicenda abbastanza agilmente. Tuttavia, l’architettura labirintica voluta dall’autrice, rende evidente che ci sono diverse chiavi di lettura, diversi punti di vista su cui il lettore può focalizzarsi. Banalmente, la cosa che salta subito agli occhi è la centralità, nel romanzo, del concetto stesso di “racconto”: Il Mare senza stelle è una dichiarazione d’amore per la parola. Tutte le storie in esso contenute sono un regalo che l’autrice fa al mondo, sono parole che prendono vita e che costruiscono immagini.

Il primo passo per comprendere e apprezzare questo romanzo, dunque, è amare la lettura, amare le storie e le metafore di cui esse si nutrono. D’altra parte, però, il messaggio che Il Mare senza stelle vuole veicolare per quanto riguarda l’importanza delle parole e dei racconti, non si esaurisce in questo. C’è anche un altro messaggio nascosto nelle fiabe e nei miti custoditi nel Mare senza stelle: ogni favola che Zachary legge in Dolci rimpianti è la rappresentazione di altri elementi della trama e, contemporaneamente, è la chiave di volta per comprendere il fine ultimo di tutta la narrazione. In tutto il romanzo, infatti, troviamo delle immagini ricorrenti, a partire dalla chiave, la spada e l’ape, rappresentate già in copertina, e che rimandano a simbolismi lontani e vagamente mistici.

Ugualmente, esistono personaggi e motivi ricorrenti, come il Mercante di stelle o il Re Gufo, che, oltre a costituire un fil rouge tra diverse fiabe, sono anch’essi in qualche modo legati a significati nascosti. Di cosa, tuttavia, tutti questi elementi siano rappresentazione, l’autrice non lo dice mai direttamente, né lo fa capire in maniera chiara, cosicché il lettore si troverà immerso in una sorta di gioco di specchi, nel quale però i riflessi cambiano in base alla sua specifica interpretazione. Tutto, in Mare senza stelle, è permeato di una certa ambiguità che, lungi dall’infastidire, spingono alla riflessione e alla ricerca di un senso, che poi diventa chiave di lettura personale dell’intero romanzo. Per quanto mi riguarda, le mie personali elucubrazioni mi hanno portata ad interpretare il tutto come un viaggio verso la conoscenza e verso l’accettazione del proprio destino, partendo da un’interpretazione dei tre elementi ricorrenti: la chiave, simbolo del mistero da svelare, dell’azione difficile da intraprendere, è il lampo dell’illuminazione e della scoperta; la spada rappresenta il destino, che pende sul capo di ogni individuo; l’ape, raffigurazione dell’eloquenza e dell’intelligenza, può anche, in alcune culture, rappresentare l’anima immortale, o il Fato di ognuno.

E voi, che interpretazione darete al Mare senza stelle?

Un posto dove andare - María Oruña

Da pochi anni abbiamo scoperto anche in Italia il talento di Maria Oruña, giovane scrittrice spagnola di cui esce in questi giorni “Un posto dove andare”, per l’editore Ponte alle Grazie. Si tratta del secondo romanzo con protagonista la detective della Guardia Civil Valentina Redondo, uscito originariamente in Spagna nel 2017. Un’intraprendente e quasi sfrontata eroina che si affianca al numeroso gruppo delle detective donne che popolano la letteratura noir europea e nella quale crediamo dii poter scorgere la nemesi della scrittrice stessa.

Nei dintorni di Suances, graziosa località della costa galiziana nella quale vive il nuovo compagno di Valentina Redondo, Oliver Gordon, viene ritrovato il cadavere di una giovane donna, in abiti storici che ricordano l’età medievale. La ragazza è stata curiosamente posizionata al centro di un antico castello della stessa epoca, al punto da far pensare gli investigatori a una sorta di viaggio nel tempo. Sarà viaggiando tra congressi di archeologi, gruppi di speleologi, stranii musei, che Valentina riuscirà a decifrare l’enigma che sta dietro l’uccisione della ‘dama medievale ‘.

La Oruña costruisce un romanzo caratterizzato da un intreccio complesso, che ci svela lentamente con un meccanismo di salti temporali che realizzano una sorta di percorso convergente di avvicinamento alla soluzione del giallo. I personaggi vengono descritti lentamente nel corso dell’opera, con una prosa molto lieve, che indulge spesso a descrizioni di ambienti esterni e delle personalità dei protagonisti, con un linguaggio ricco e accattivante. Un romanzo scritto molto bene, con un andamento tranquillo, che talvolta può però apparire un po’ debole sul versante del ritmo. Tuttavia, la grazia della narrazione e la bella ironia che la scrittrice utilizza non fanno per nulla annoiare il lettore.

C’è molto amore per la sua Galizia nelle pagine della Oruña, che ci guida con pazienza nelle numerose bellezze naturalistiche di quella terra. Un luogo un po’ fuori dai circuiti di massa, così come un po’ marginali ci sembrano essere gli eroi minori della Guardia Civil di Santander, guidati dalla tenace, ma fragile e insicura Valentina Redondo. Quasi un elogio della normalità, a scapito di coloro che pensano che lasciare il proprio segno nel mondo voglia dire realizzare imprese eccezionali di dimensioni globali. In “Un posto dove andare”, chi pensa troppo in grande è sconfitto. Mentre i veri vincitori sono coloro che si accontentano di lavorare con serietà sul territorio, godendo delle piccole gioie quotidiane.

Ma trovare la propria dimensione non è facile, bisogna continuamente andare alla ricerca di sé stessi, in un peregrinare che è anche un percorso interiore, alla continua ricerca del proprio approdo, che è poi il luogo dove andare cui fa riferimento il titolo. Così è chiaro che i viaggi che tante volte la Oruña ci descrive nel suo romanzo, anche se ci parlano di luoghi fisici spesso molto lontani, fanno riferimento alla metafora del viaggio come scoperta interiore. Ed è importante ricordare, come dice Tolkien, che Oruña cita nel finale, che non tutti gli erranti sono perduti. Ed è quindi evidente cosa vuole dirci nel finire delle note esplicative l’autrice: “Io, che a volte ho vagato senza meta, auguro a chiunque abbia letto questo libro, se ancora non ce l’ha, di trovare un bel posto verso il quale dirigersi.” In chiusura, una breve considerazione sulle questioni di genere, ricordandoci che stiamo parlando di un romanzo del 2017 (prima del #metoo). Le donne della Oruña sono sempre protagoniste, anche se non sempre hanno connotati positivi. Direi che ciò che traspare maggiormente è una loro fragilità, che non è che l’altra faccia della medaglia di un’autenticità di sentimenti che le rende speciali. Sono loro forse che ci possono guidare nel bel posto che stiamo cercando.

María Oruña è una scrittrice spagnola, laureata in Legge, che ha esercitato per dieci anni come avvocato. Nel 2013 pubblica il suo primo romanzo, La mano del arquero, e nel 2015, con il successo internazionale de Il porto segreto, decide di dedicarsi interamente alla letteratura.
In Italia per Ponte alle Grazie sono usciti Quel che la marea nasconde (2022), Il porto segreto (2023), capitoli della serie di Puerto Escondido.

Gastone musone e il pigiama party - Suzanne Lang

E' bello!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
SOPRATUTTO E' BELLA LA COPERTINA CHE SI ILLUMINA AL BUIO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Finché non aprirai quel libro - Michiko Aoyama

Entra in biblioteca, cerca la signora Komachi. Il libro giusto sta per arrivare da te. Solo tu potrai trarne il messaggio che ti serve. “Finché non aprirai quel libro” di Michiko Aoyama, edito da Garzanti e tradotto da Daniela Guarino, è un romanzo che parla di libri e dell’effetto che possono avere sulle persone. Il tema principale è la realizzazione personale e il suo raggiungimento. Capita nella vita di non capire qual è la propria vocazione e in molti si arrendono durante il percorso, a volte per mancanza degli stimoli giusti, a volte perché ci si lascia scoraggiare dagli avvenimenti o dalle persone che si hanno accanto. Questo libro vuole essere un inno a non abbattersi mai perché a volte basta poco per raggiungere degli obiettivi e la cosa più ingiusta che si possa fare a se stessi è arrendersi dinanzi alle difficoltà. Affidarsi a qualcuno può essere difficile ma anche liberatorio.

“Mi sa che la cosa importante è non lasciarsi scappare il momento del destino”

“Finché non aprirai quel libro” ruota attorno a una bibliotecaria speciale e a cinque persone che si trovano in momenti delicati della vita. In alcuni casi i personaggi si intrecceranno tra di loro ma nulla avverrà per caso.

Tomoka, ventenne al suo primo lavoro come addetta alle vendite in un’importante catena di negozi, non sa bene cosa vuole dalla vita, l’unica sua certezza è che vuole vivere a Tokyo e non vuole tornare nel suo Paese.
Ryo, trentacinquenne contabile per un’azienda di mobili, ha la passione per l’antiquariato ma non l’ha mai coltivata seriamente.
Natsumi, quarantenne, era una redattrice di un magazine prima di avere una bambina, ora è combattuta tra la sua ambizione di lavorare e il suo ruolo di mamma.
Hiroya è un giovane trentenne disoccupato che sogna di diventare illustratore ma soffre di attacchi d’ansia e di un complesso d’inferiorità nei confronti del fratello maggiore dalla carriera brillante.
Masao, sessantacinquenne da poco in pensione, ha lavorato per più di quarant’anni per la ditta che produce i famosi biscotti Honey Dome.
Infine c’è lei, Komachi Sayuri. Bibliotecaria di mezza età dalla pelle candida e con uno chignon fissato da uno spillone a fiori. Non ha poteri magici, né tantomeno i libri consigliati sono amuleti, ma è lì per indicare la strada grazie al potere mai sopito dei libri.
“Probabilmente il momento in cui ti sei impegnata di più nella tua vita è stato quando sei venuta al Mondo. Le cose accadute dopo di sicuro non possono essere tanto dolorose quanto quel momento. Se sei riuscita a sopportare un tale sforzo, allora puoi superare adeguatamente anche questo”.

“Finché non aprirai quel libro” è ambientato in Giappone e tutto ha inizio quando si entra nella biblioteca. Poi bisogna cercare la signora Komachi e attendere che lei chieda: «Che cosa cerca?». Apparentemente può sembrare una domanda banale ma non lo è. Perché lei non è come le altre bibliotecarie. Riesce a intuire quali siano i desideri, i rimorsi e i rimpianti della persona che le sta di fronte e a consigliare esattamente il libro capace di cambiarle la vita. Ognuno dei cinque personaggi esce dalla biblioteca stringendo tra le mani un libro inaspettato. E tra quelle pagine troverà il coraggio di cambiare prospettiva e non arrendersi. Ma, oltre al libro, ognuno riceverà anche un “supplemento”, un oggetto in lana cardata che la signora Komachi ama lavorare in biblioteca tra una consulenza e l’altra.

“Finché non aprirai quel libro” è un romanzo che incuriosisce e affascina; è un’opera ben scritta, con un ritmo rilassante ma allo stesso tempo coinvolgente. Fenomeno editoriale in corso di pubblicazione in tutto il Mondo, in Giappone ha venduto più di 150.000 copie in poche settimane dall’uscita e vinto il premio Japan Booksellers’ Award, assegnato dai librai.

“Poiché gli esseri umani vivono sopra la superficie, la maggior parte delle volte rivolgono il loro sguardo ai fiori e ai frutti. Tuttavia quando osserviamo con attenzione le patate dolci o le carote, immediatamente le radici che si trovano sotto terra diventano protagoniste. Eppure, dal punto di vista delle piante, entrambe le parti sono ugualmente necessarie l’una all’altra e sono in perfetto equilibrio. Gli esseri umani finiscono per pensare che quello che più fa comodo a loro sia il mondo principale. Ma invece per le piante sono entrambi principale”

Autrice

Michiko Aoyama è nata nel 1970 e vive a Yokohama. Dopo la laurea ha lavorato come giornalista in Australia, prima di rientrare in Giappone e intraprendere la carriera di editore scrittrice. I suoi libri hanno ricevuto numerosi riconoscimenti in patria, tra cui il Miyazaki Book Award e il Miraiya Shoten Grand Prize.

Tutti i particolari in cronaca - Antonio Manzini

"Ci voleva tempo, e di tempo Carlo Cappai ne aveva a volontà..."

Attendere e sperare! Declama Edmond Dantès nel Conte di Montecristo. Una vita dedita alla costruzione paziente e mascherata della sua vendetta. Una lunghissima corsa alla realizzazione della giustizia. Carlo Cappai, il protagonista di Tutti i particolari in cronaca di Antonio Manzini (Mondadori), è un Edmond Dantès costretto a una prigione un po’ diversa. Faretti alogeni e imposte serrate. L’archivio del tribunale penale, fatto di faldoni impolverati e denominati in lettere, un labirinto di cartelle che contengono casi per lo più irrisolti o risolti male. E Cappai li conosce tutti. Lui attardato da una vita lenta, fatta di una quotidianità logorante, lavora di giorno e di notte tesse la sua tela. Appesantito da un senso di colpa profondo e lungo quarant’anni, un elastico attorno alla caviglia che sembra sempre tirarlo indietro: la morte della migliore amica Giada che lui vuole a tutti i costi vendicare. E la sua vendetta, personale ma non egoriferita, è aggravata dal coinvolgimento del padre, il giudice reo di aver prosciolto il responsabile dell’omicidio.

Alla voce di Cappai se ne alterna un’altra. Recalcitrante e poco incline a ritmi lenti. Quella di Walter Andretti, il cronista sportivo spedito alla cronaca nera che si ritrova improvvisamente ingarbugliato in una rete di omicidi legati tra loro.

Due personaggi all’apparenza inconciliabili che si scoprono complici nell’indagare insieme. Da una parte un Cappai solitario, arrabbiato dentro da troppo tempo. Una sagoma da film noir, di ombre lunghe e pochi cenni. Dall’altra un Andretti che corre e si affanna nel tentativo di odiare un lavoro che poi finisce per appassionarlo. A legarli la chiamata verso la giustizia. Un concetto che dovrebbe realizzarsi e bearsi nella sua concretezza, eppure viene spesso sfiancato dall’astrattezza della legge e di tutti i suoi maledetti cavilli.

"Cosa aveva imparato in due anni di polizia? Che legge e giustizia correvano su due binari differenti. Che la giustizia interessava solo quando qualcuno veniva privato di qualche diritto, altrimenti restava un concetto e come tale accantonabile"

A far da sfondo Bologna. Quella storica dei cortei sanguinosi di fine anni ’70 dove perde la vita proprio Giada, ma anche quella buia e spettrale - al limite del fantastico - dei nostri anni dove si consuma la doppia indagine.

Antonio Manzini debutta nella collana Giallo Mondadori donandoci ancora una volta personaggi che più si ostinano a evitare ogni compiacenza, più affascinano. Protagonisti che vestono bene i panni dell’eroe byroniano. Imperfetti, irrispettosi e spesso avversi. Provveditori di una giustizia da una parte alimentata dalla spinta della vendetta, dall’altra da una passione nascente. Se Cappai dalle ingiustizie si è lasciato logorare - come gocce ostinate che scavano la roccia - fino a intorbidirsi, Andretti in questa ricerca si rinvigorisce, quasi ripulendosi. L’avversione a un lavoro che inizialmente non sente suo si trasforma in propulsione all’azione, in uno scopo genuino che stupisce. Una parabola discendente e una crescente che si intersecano nonostante ritmi completamente diversi. Da una parte quello di Cappai viziato da una litania lenta e disincantata, che sembra quella di un romanziere di lunga data; dall’altra la voce nervosa di Andretti che sotto forma di diario ci butta addosso informazioni e irriverenze.

E in mezzo a questo meccanismo alternato, noi lettori siamo chiamati a preparaci allo svelamento finale. A prestare attenzione, a non sottovalutare gli indizi e a orientarci. Che sia tra il dedalo di scaffali dell’archivio di Cappai, o tra le considerazioni sputate nel diario di Andretti, il nostro scopo è quello di evitare l’ennesimo errore di valutazione.

"Non sempre ci azzecchiamo. Ma c’è un motivo: non siamo bravi a osservare, non guardiamo con attenzione, prendiamo sotto gamba dei dettagli o delle virgole che invece sono fondanti, essenziali, risolutivi".

Cuore nero - Silvia Avallone

Tra le mura di un borgo piemontese, Bruno ed Emilia si incontrano: l'uno vittima, l'altra carnefice, sono entrambi in cerca di un rifugio dal proprio passato. Il nuovo romanzo di Silvia Avallone ribalta i ruoli e parla dei sorprendenti limiti che solo l'amore può superare...

Sassaia è un piccolo borgo nella Valle Cervo, un paesello sconosciuto ai più che si può raggiungere solo a piedi, attraverso una strada sterrata e nascosta.

È il luogo perfetto in cui riposare, allontanarsi dal presente e dal rumore delle macchine. Un posto in cui staccare da tutto o scappare da sé stessi e dal proprio passato. Ma è davvero possibile farlo?

Un giorno giunge a Sassaia una ragazza di trent’anni: si chiama Emilia e ha con sé molte valigie e un accento diverso. Da dove viene e cosa la spinge fino a quel borgo incastonato tra i monti? Bruno, che assiste al suo arrivo, non sospetta ancora l’importanza stravolgente che questo incontro rappresenterà nella sua vita.

Cuore Nero, il nuovo romanzo di Silvia Avallone edito da Rizzoli, è appena uscito e già la sua vicenda ci appassiona. L’incipit rivela quella speciale attenzione che la scrittrice ama dedicare ai suoi personaggi, qui prova di una nuova maturità letteraria raggiunta.

Dopo il successo di Acciaio (secondo classificato al Premio Strega 2010 dopo Canale Mussolini, diventato anche un film per la regia di Stefano Mordini), e l’amicizia tra i casermoni di Piombino tra Anna e Francesca, questa volta fronteggeremo due personaggi che provano a lasciarsi alle spalle un passato difficile e problematico. Bruno ed Emilia sono simili e diversi allo stesso tempo, lo stesso sguardo vuoto che nasconde la paura di rivivere quello che è stato, uno dalla parte della vittima, l’altra da quella del carnefice.

Silvia Avallone lo sottolinea nell’intervista, in Cuore nero ha provato a ribaltare i ruoli, compiendo il salto verso un personaggio femminile che non ha subito il male ma che lo ha fatto, ha pagato con quindici anni di carcere minorile e adesso si nasconde in un luogo lontano. Bruno, invece, è l’occhio e la voce del narratore: lui che fugge dalla vita e si priva di ogni possibile conoscenza, sarà costretto a mettere in discussione ogni suo forzato limite perché di fronte all’amore, che poi è la vita che bussa, si può solo scegliere di aprire la porta.

Si tratta di fiction, di invenzione, se pur la vicenda si arricchisce di elementi legati all’esperienza della sua scrittrice, ma di fronte al male commesso e alla ricerca di una redenzione sorge lo stesso un grande interrogativo: come si fa a riparare l’irreparabile? Per fortuna la letteratura è un luogo in cui tutto è possibile, in cui faccia a faccia con i personaggi che escono dalle loro avventure, si finisce – quando il libro è un gran libro – per conoscere qualcosa in più di noi stessi, e vale tanto per gli scrittori, quanto per i lettori.

L’istinto di Silvia Avallone l’ha portata sulle pendici di Sassaia alla scoperta di due vite che cercano un riparo: ne è nato un libro travolgente, che chiede di metterci in discussione per capire la purezza di uno sguardo che ama al di là di ogni ombra e di ogni male.

La vita è bella, nonostante - Sveva Casati Modignani

Non diventiamo mai robot, continuiamo a emozionarci, ad amare e a credere nell’amicizia. È questo il senso della conversazione con una delle scrittrici italiane più lette, Sveva Casati Modignani. Lo spunto di questa chiacchierata è il suo nuovo romanzo, La vita è bella, nonostante (Sperling & Kupfer), quarto e ultimo capitolo di una serie di grande successo. Al centro della trama ritroviamo le quattro amiche create “dalla Sveva”, come la chiamano le sue lettrici, che le scrivono e le portano regali alle presentazioni. Il focus, stavolta, è su Carlotta, che nelle prime pagine deve affrontare un lutto. Al suo fianco, Maria Sole, Andreina e Gloria, che pure sanno cosa significhi lottare e ricominciare. Piccolo spoiler: il finale è lieto, perché la vita è bella (nonostante).

Oltre 12 milioni di copie vendute, traduzioni in 20 Paesi: chi sono le protagoniste dei suoi libri, specchio delle donne di oggi?

«In ogni romanzo racconto la storia di una di queste amiche inseparabili. Ho iniziato con Andreina, nata in un paesino, figlia di una ragazza madre: ha avuto un’infanzia e una giovinezza terrificanti. Nel secondo volume parlo della più giovane, Maria Sole, nata bene, cresciuta nella bambagia, tenuta all’oscuro di ogni segreto del sesso. Non si era neppure accorta che il suo più grande amico, conosciuto all’asilo, fosse omosessuale, e neanche lui ne aveva piena coscienza. Ritroviamo anche Gloria, al centro del terzo romanzo della serie. In questo libro sta rivalutando il suo amore per Sergio, il compagno di sempre. E infine, Carlotta, la più grande, si avvicina ai 49 anni. È un po’ la capa del gruppo, un’avvocata di successo. Ha avuto tanti amanti, ha sposato il suo grande amore, Gianni, un chirurgo. Hanno una figlia. Poi Gianni muore all’improvviso, nel sonno. Quel giorno Carlotta si sentiva grata alla vita, che era stata generosa con lei. Quando deve affrontare questa tragedia, ha un buon rapporto con se stessa, con il tempo che passa, è realizzata nel lavoro».

Ha un marito affascinante, onesto, innamorato di lei e del proprio lavoro, una figlia meravigliosa e le amiche del cuore che ama come sorelle. Ma…

«Il Signore non vuole che siamo contenti. Il destino, la vita le tirano una mattonata sui denti».

Secondo lei, nella vita di tutte noi quanto conta l’amicizia?

«L’amicizia, in particolare quella femminile, è fondamentale. Nessuno ti capisce meglio di una donna, ma noi non l’abbiamo ancora interiorizzato fino in fondo e alla prima occasione ci ficchiamo le dita negli occhi. È un retaggio atavico, faremo fatica a liberarcene, ma sono ottimista: penso che ci riusciremo. Le donne devono capire che, se sono in grado di fare rete tra loro, riescono a esprimersi, a dare il massimo di sé, a realizzare grandi cose. Lo dimostrano le amiche di questa serie. Sono unite dalla sincerità dei sentimenti. Sono capaci di lanciare il cuore oltre l’ostacolo e di cambiare vita. Sono molto coraggiose. Maria Sole, che era la più imbranata del gruppo, tira fuori le sue capacità gestionali, di amore e di accoglienza, e tutte si appoggiano a lei».

È davvero l’ultimo romanzo di questa serie?

«Amo alla follia tutti e quattro i personaggi e magari in futuro riprenderò le loro storie. Nel libro lo faccio dire alle protagoniste, che si ritrovano il giovedì per confidarsi e per passare del tempo insieme: “Forse un giorno i nostri figli avranno la loro cena del giovedì”. Ma per adesso la tetralogia è finita».

Quanto sono importanti le emozioni che lei riesce a trasmettere con la scrittura? In La vita è bella, nonostante ci si commuove e poi si finisce il libro con la voglia di non mollare.

«Io vivo di emozioni. Come ciascuno di noi. Altrimenti saremmo dei robot. Prendiamo l’amore, “l’amor che move il sole e l’altre stelle” di Dante. È il motore della vita, dell’umanità. Il nostro meraviglioso Pianeta, che stiamo distruggendo, è nato da un gesto di amore di una intelligenza superiore. E invece viviamo in una società algida che va avanti per schemi, badando al proprio tornaconto e guardando con indifferenza al resto del mondo. Pensiamo a quello che è successo a Caivano: quale educazione hanno avuto questi giovani, in quali famiglie sono cresciuti? Non certo con amore e con il rispetto per l’altro, soprattutto per la donna».

È preoccupata per i giovani?

«Penso ai miei nipoti e mi chiedo: “In quale Paese vivranno?”. Sono veramente amareggiata per la società che lasciamo in eredità alle nuove generazioni: mi riferisco all’ambiente, ma non solo. Sarebbe così facile aiutarsi a vicenda, volersi bene, prendersi cura degli altri. Uscire e, con un bel sorriso, dire alle persone che incontriamo: “Buongiorno”. Si vive molto meglio amando piuttosto che odiando».

Cosa consiglierebbe ai giovani aspiranti scrittori?

«Scrivi quello che ti detta il cuore. Se non sei nato narratore e vuoi scrivere romanzi, lascia perdere, non farlo. Questa regola vale per ogni mestiere: il pittore nasce pittore e dopo affina il suo lavoro, il musicista nasce musicista, il narratore nasce narratore. Non abbiamo il merito delle cose che facciamo. Se le facciamo bene, sono doni che ci sono arrivati da Dio, a cui possiamo solo essere grati».

A 85 anni, dopo una quarantina di bestseller, cosa significa scrivere per lei?

«Mia nonna non mi raccontava la fiaba di Cappuccetto Rosso, ma mi mandava ogni mattina a comprare il giornale. Poi mi leggeva la cronaca, dalla prima all’ultima riga. Ho sempre respirato storie. Mi sono sempre raccontata storie, fin da bambina. Sono fortunata perché faccio quello che ho sempre sognato. Ho creato un mondo di lettrici che mi amano e me lo dicono. Mi piace ancora moltissimo raccontarmi storie. E raccontarle agli altri».

La famiglia del piano di sopra - Lisa Jewell

La famiglia del piano di sopra è un thriller psicologico su più piani temporali, in cui il passato torna a galla e influenza la vita di una tranquilla e simpatica londinese, inondandola di domande sulle sue origini. Domande che devono, necessariamente, trovare una risposta. A tutti i costi.

"Dopo l’arrivo di quelli cambiò tutto: i nostri genitori, la casa di Chelsea, la nostra vita".

Tutto inizia quando Libby, adottata da neonata, allo scoccare dei suoi venticinque anni eredita una casa in Cheyne Walk. È così che si riaprono le ferite del passato e la giovane scopre le sue origini: un apparente suicidio collettivo, una setta, bambini scomparsi misteriosamente.

La famiglia del piano di sopra intreccia con efficacia passato e presente, pone trappole e sotterfugi, convince il lettore di essere venuto a capo della faccenda quando in realtà è ancora lontano anni luce dalla verità. È un noir che non ti aspetti, in cui ti appare normale che innocenti bambini facciano parte del “gioco”, anzi, che ne prendano le redini.

"Tornai subito in camera mia, con il batticuore e lo stomaco in subbuglio. Mi portai le mani al collo cercando di placare la nausea e l’orrore. Imprecai a mezza voce, poi a voce più alta. Un momento dopo aprii la porta: non c’erano più".

Durante la lettura non potrete fare a meno di tornare all’inizio degli anni Novanta e di respirare la stessa cupa e ambigua atmosfera con cui avevano a che fare Henry, Martina e Birdie, per citarne alcuni. Veganesimo, povertà monacale e promiscuità sessuale sono solo alcuni degli elementi che porteranno questa grande famiglia allargata verso l’autodistruzione.

"Mettere piede fuori dalla proprietà era vietato: una volta alla settimana ci venivano recapitate a casa verdure fresche e in dispensa avevamo abbastanza legumi e cereali per almeno cinque anni".

Una storia incredibile che, grazie all’abilità dell’autrice Lisa Jewell si fa plausibile.

Preghiera nell'assedio - Damir Ovčina

Un romanzo potente la cui forza sta nello stile di Ovčina che dalla prima all'ultima pagina, senza mai descrivere un'emozione, fa vivere al lettore quel perenne stato di incertezza, precarietà, e paura, che hanno provato le vittime dell'assedio di Sarajevo.
Preghiera nell'assedio è un libro che, per la sua bellezza e per l'affetto che mi ha fatto provare verso il suo protagonista, nonostante la sua mole, avrei voluto non finisse mai.
Un capolavoro!

Il giorno della giustizia - di James Patterson e Maxine Paetro

James Patterson è uno scrittore americano molto famoso, autore di numerosi romanzi di successo che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo ed è considerato uno dei maggiori autori di thriller contemporanei. Ha scritto moltissimi libri, tra cui la serie di romanzi con protagonista il detective Alex Cross, la serie di romanzi di Maximum Ride e la serie delle Donne del Club Omicidi, che ha dato il via anche a una fortunata serie televisiva. Proprio nell’ambito di quest’ultima serie esce per Longanesi (collana “La gaia scienza”) il romanzo “Il giorno della giustizia”, scritto come al solito in collaborazione con Maxine Paetro (traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani), che ho il piacere di recensire oggi al Thriller Café.

Siamo a San Francisco, dove le nostre eroine del Club Omicidi lavorano, un venerdì mattina come un altro. Una serie di omicidi sincronizzati scuote la città. Contemporaneamente, in altre città americane, vengono annunciati altri omicidi. Il tutto fa pensare a un’organizzazione di qualche natura che ha elaborato un piano, anche perché ciò che accomuna i delitti è l’appartenenza delle vittime al mondo della droga. Parte così un’altra avventura delle Donne del Club Omicidi: la detective Lindsay Boxer, la sostituta procuratrice Yuki Castellano, la giornalista Cindy Thomas e la anatomo-patologa Claire Washburn. Tra mille peripezie e alcuni delitti “al contorno”, Patterson e Paetro ci fanno immergere in una piacevole lettura che ci trascina fino alla fine nel solito stile Patterson. Il romanzo fila, come succede solitamente con questi autori, i diversi filoni sono ben intrecciati tra loro, i personaggi credibili e l’asse portante della narrazione è sempre molto solido. Ritmo incalzante, anche perché Patterson ama scrivere capitoli molto brevi, densi, essenziali, senza fronzoli.

Come già accennato, c’è la droga nello sfondo di questo romanzo. Non possiamo non cogliere una riflessione su una tema molto sentito negli Stati Uniti oggi: quello della pervasività delle sostanze, che si sono molto diversificate rispetto a quanto avveniva nei decenni scorsi e a causa del mutamento dei costumi non sono più soltanto (anzi, quasi per nulla) utilizzate a scopo ricreativo, ma sono entrate in pieno nello stile di vita frenetico che caratterizza i nostri giorni, diventando merce di consumo veloce con effetti assolutamente devastanti. Insieme a questo, mi sembra di aver colto (e lo si vede anche dalla dedica inziale del libro “Questo libro è dedicato alle forze dell’ordine degli Stati Uniti d’America, che rischiano ogni giorno la vita per la nostra sicurezza”) una voglia di leggere dall’interno la sofferenza di chi lavora nelle forze dell’ordine. Tema sicuramente delicato in epoca di “Black Lives Matter”, perché non sembra banale far coesistere gli onesti difensori della sicurezza e chi usa la divisa per farsi gli affari propri (ce ne sono anche in questo romanzo). In ultimo, ancora, un altro tema si affaccia, quello dei veterani delle numerose campagne di guerra americane. Persone spaesate, prive di un’identità al ritorno delle missioni, spesso preda di pulsioni autodistruttive e di cui nessuno nella società americana sembrerebbe volersi occupare.

Un altro accenno lo meritano sicuramente le molte parentesi dedicate agli scorci familiari delle protagoniste, che tutte, chi più chi meno, hanno a che fare con problemi personali anche seri. Ho colto in questi quadretti la ricerca di un angolo di tranquillità in una vita frenetica e se vogliamo anche una piccola critica alla turbo-velocità dei nostri giorni, alla ricerca di una dimensione più naturale.

Per chi è abituato a leggere tutto di un fiato i romanzi di Patterson, “Il giorno della giustizia” non vi deluderà. Probabilmente non uno dei capolavori assoluti dell’autore, ma una bella e piacevole avventura che si legge tutta di un fiato e che ci tiene incollati alle pagine.

La pietra del rimpianto - Arnaldur Indriðason

In un bel quartiere residenziale di Reykjavík, tra condomini e villette a schiera, un omicidio brutale riesce a scuotere la tranquillità dei suoi abitanti: la vittima è una donna anziana, trovata morta nell’ingresso di casa sua soffocata da un sacchetto di plastica.

Per i vicini era una donna tranquilla, forse un po’ schiva, sicuramente perbene: nell’appartamento messo a soqquadro ci sono pochi indizi sul movente dell’omicidio, ma quello che potrebbe aiutare le indagini potrebbe esser un biglietto con un numero di telefono che stupisce, perché è il numero dell’ex collega, il detective Konráð, ormai pensionato.

Konráð, subito contattato, racconta che tempo prima una certa Valborg, anziana e gravemente malata, lo aveva cercato chiedendogli di ritrovare il figlio dato in adozione quasi mezzo secolo prima: lui però aveva rifiutato di aiutare la donna, perché una ricerca del genere – con ogni probabilità – non avrebbe portato a nulla.

Ora Konráð si sente in colpa per non averla aiutata, perché lui stesso sa cosa significhi avere in sospeso risposte dal passato: non ha mai infatti cercato la verità sulla morte del padre, assassinato nel 1963 davanti alla Cooperativa di Macellazione del Suðurland.

Inizia così l’indagine per scoprire la verità su quel figlio perduto, ma questa ricerca lo porterà a scoprire sempre più verità scomode sulla morte del padre.

L’Islanda è terra di grandi spazi e antiche leggende, ed è in una di queste leggende che si trova il senso del titolo e del romanzo:

“Ora Konráð trovò notizia dell’effettiva esistenza di un roccione che portava quel nome. Il Tregasteinn era legato alla leggenda di una donna che era in cammino con il braccio il figlio ancora in fasce, quando un’aquila era calata su di lei, aveva afferrato il bambino e si era levata in volo verso il Holsfjall. Lei l’aveva inseguita fino alla rupe, ma quando era arrivata aveva trovato solo un rivolo di sangue che colava lungo la roccia. A quel punto, vinta dalla stanchezza e dal dolore, era spirata”.

Nel nuovo romanzo di Indriðason tutto sembra ruotare intorno alle verità sepolte e al rimpianto: rimpianto per ciò che poteva essere, o quello che è stato, per quello che si conosce e quello che si vorrebbe dimenticare o per le verità mai venute a galla.

Konráð per primo è pieno di rimpianti, soprattutto per quanto riguarda il padre, un uomo violento e noto truffatore, morto di una morte violenta che solo ora si sente in grado di affrontare: ma in generale tutti i personaggi hanno qualcosa nel loro passato con cui fare i conti.

Come sempre Indriðason sa scavare nella psicologia dei protagonisti, entrando a poco a poco nelle loro esistenze e raccontandone, con lo stile sobrio che lo contraddistingue, le più profonde emozioni, così come sa raccontare la mentalità di un paese così e culturalmente geograficamente distante da noi, e così affascinante. Certo, siamo di fronte a uno stile che non è per tutti, la cui rarefazione può risultare ostica a chi ama i ritmi più serrati: ma Indriðason è sicuramente una garanzia per gli amanti del genere nordico, e il titolo di Simenon del Nord rende bene l’idea del valore e della qualità della scrittura.

Quello che forse convince meno in questo romanzo, che pure introduce il convincente personaggio di Konráð, è la trama, nella quale coincidenze e connessioni paiono a tratti un po’ troppo forzate, come se l’autore abbia voluto raccontare un’idea e abbia cercato di comporre la storia a sostegno di questa idea: pur essendo una storia affascinante, non sempre la narrazione scorre come dovrebbe, forse anche per la lunghezza del romanzo un po’ eccessiva.

E’ comunque un romanzo che sa costruire ottimi personaggi e raccontare uno spaccato di società islandese che, in particolare nella ricostruzione degli anni più lontani, ha un grande fascino. E’ sufficiente? Per gli appassionati del Grande Nord probabilmente sì, e siamo sempre di fronte ad un autore di assoluto livello.

Arnaldur Indriðason è nato nel 1961 a Reykjavík, dove ha sempre vissuto. Si è dedicato alla scrittura, sia di romanzi sia di sceneggiature. Tradotto in quaranta lingue, è considerato a pieno titolo il òpiù importante scrittore di noir islandese. Guanda ha pubblicato tutti i suoi romanzi: Sotto la città, La signora in verde, La voce, Un corpo nel lago, Un grande gelo, Un caso archiviato, Un doppio sospetto, Cielo nero, Le abitudini delle volpi, Sfida cruciale, Le notti di Reykjavík, Una traccia nel buio, Un delitto da dimenticare, Il commesso viaggiatore, La ragazza della nave, Quel che sa la notte, La ragazza del ponte, I figli della polvere.

La Regina del silenzio - Marie Nimier

“Vedo l’incidente al rallentatore. Potrei descrivere nei minimi particolari tutte le possibili versioni della catastrofe, anche di quello potrei farne un romanzo. Un libro costruito intorno al fatto di cronaca riprendendolo ogni volta dal principio, come in quegli incubi in cui nuoti controcorrente, i piedi attaccati all’argine con un elastico. Quello che lui ha taciuto, quello che lui ha detto. L’odore dell’auto e il rumore del motore. Il gioco dei corpi e le proiezioni della psiche. Quel bagliore improvviso, la paura, gli urli e il grande silenzio che ne è seguito. Mi ricorderei le ultime parole di d’Artagnan in quel romanzo che mio padre aveva appena finito quando ha incontrato Sunsiaré: «Non ci sono che le strade, per calmare la vita».

Con La Regina del silenzio (trad. Fabrizio Di Majo, Edizioni Clichy) Marie Nimier si chiede come riappacificarsi col proprio passato, con l’assenza paterna, con un lutto mai del tutto elaborato, attraverso il tentativo in chiave narrativa di attuare un distacco per prendere coscienza di sé, emanciparsi dalla propria storia, scrutare suo padre. Il titolo deriva dall’appellativo risalente ai primi anni scolastici che riporta a un tempo incerto, segnato da omissioni e dolorose incognite. Quando suo padre muore in un incidente stradale alle porte di Parigi a bordo della sua Aston Martin in compagnia della scrittrice Sunsiaré de Larcône, Marie ha cinque anni, apprende la notizia rendendosi conto solo dalle lacrime altrui che si tratta di un evento irreparabile. Piange il dolore di sua madre, piange la scomparsa di un uomo perennemente altrove, da tempo separato da sua moglie.

Divenuta una scrittrice affermata, insignita del prestigioso Prix de l’Académie Française, autrice di romanzi, sceneggiature, canzoni, drammi teatrali, Marie Nimier sente di dover fare i conti con quella perdita infantile. Convinta di non avere ricordi, oltre a traumi sommersi, raduna dichiarazioni di amici e conoscenti, prova invano a mettersi in contatto con l’orfano di Sunsiaré sentendosi affine alla solitudine di un bambino trattato come un adulto, evoca le rivelazioni di sua madre, cerca tra le parole dei suoi libri, incontra suo fratello. Comprende che per riannodare i fili di un groviglio inestricabile occorre provare a ricostruire il corpo smembrato del padre passando per la sua uccisione ideale.

"Ho trascinato la sua morte come una vecchia pelliccia di coniglio rattoppata, un orsacchiotto molto sporco, di quelli che finiscono nel bucato perché la mamma, per motivi igienici, ha deciso così – ma la mattina il bambino piange perché non riconosce più il suo odore portafortuna, e che sia un odore buono o cattivo, non è quello il problema".

Marie cerca suo padre anche nei libri che lo portarono al successo, provando a cogliere nelle figure opache al centro di Les Enfants tristes, una visione del suo tempo, incapace di impressionarsi per aspetti che all’uscita dell’opera generarono un dibattito, provando ad aggrapparsi alla bellezza dello stile. Cinici e dissoluti, i soggetti di Nimier si muovono tra le rovine di una stagione degradata, priva di reali riferimenti.

Quando smise di scrivere su consiglio di un amico romanziere che vedeva in lui la necessità di una morte e di una resurrezione artistiche, a trent’anni Roger Nimier era ritenuto tra i dieci migliori romanzieri del suo tempo. Iniziò presto a collaborare per giornali con una particolare attenzione per la critica teatrale e cinematografica, per fondare una rivista nei primi anni Cinquanta. Il grande successo arrivò, dopo l’uscita di Les épées, con il romanzo Le hussard bleu, che generò un filone narrativo che evidenziava il debito di Nimier verso Stendhal, Drieu La Rochelle e Céline.

Marie si interroga sul significato della paternità cercando di ricostruire l’immagine di un uomo enigmatico, da cui durante l’adolescenza ha dovuto distaccarsi, per rimarcare una lontananza politica e intellettuale, per poi comprendere i motivi di quella necessità.

"È meglio un padre morto che un padre che minaccia di portarvi via. Di strapparvi a una madre che adorate. Di un padre che sventra i divani. Di un padre che cerca di strangolare sua moglie e poi torna il giorno dopo con un mazzo di rose. O che si taglia le vene in un letto con le lenzuola cambiate di fresco".

Fruga tra i reperti dell’infanzia, scrutando frammenti che le restituiscono la percezione di inadeguatezza, succube dell’intelligenza paterna che subordina i figli a un elemento accessorio che disturba e che distrae. Evoca il ricordo del pranzo preparato per gioco con i cibi di plastica, un uovo fritto e delle verdure, sistemati in un piattino e portati al padre eludendo la sorveglianza della babysitter per varcare la soglia sacra del suo studio. Cacciata, ritrovò poi i resti del “pranzo” nella spazzatura, con un mozzicone fuso nel tuorlo di plastica.

Sulla pagina prende forma il ritratto reale e immaginario di un uomo rimasto estraneo agli altri e a sé stesso. La scelta di convocare idealmente momenti e figure del passato getta nel presente di Marie nuove consapevolezze sulla natura ingrata della memoria – “Le cifre non corrispondono all’immagine di lui che io mi sono costruita” – e sul ruolo salvifico della rimozione. La scoperta impossibilità di assegnare una visione coerente e univoca del padre genera un’acuta riflessione sul rapporto discordante con la storia, sul silenzio attorno agli eventi reali o presunti accaduti a suo padre nelle immagini dell’incidente, sulle allucinazioni collettive, sulla necessità di attribuire un colore alla tragedia, sul dolore di percepire un’indifferenza verso la famiglia dietro la ritrosia a immortalarsi con moglie e figli preferendo posare con personalità illustri.

Compone drammi e visioni per direzionare l’autobiografismo a un livello oggettivo e referenziale e scoprire l’irrilevanza di un bilanciamento tra invenzione e verità nel comporre il tratteggio narrativo di un dolore inestinguibile. Tra continui stacchi temporali emerge l’immagine di una donna in bilico tra le paludi del passato e la necessità di affrancarsi dai limiti dell’ignoto in un continuo cambio di visione. Lo scandaglio della vicenda pubblica e privata di Nimier scrittore, marito, padre, amante, intellettuale, amico, diventa lo strumento d’elezione per esplorare una complessa e dolorosa geografia famigliare, tra violenze, segreti, desideri sopiti, entro legami che proteggevano dal dramma “chiudendolo in un bozzolo” per soffocare “il battito delle sue ali”.

La feroce e drammatica analisi che prende forma nell’opera può compiersi solo condannando e giustiziando il padre, annientandolo per espiarne le colpe e provare a comprendere il proprio rapporto con la fine nella drammatica coincidenza di presagi di morte. Un processo fisico che trova una continua associazione nel corpo, a partire dalla descrizione dello smarrimento infantile di fronte alla precoce esposizione al lutto, paragonata alla caduta in un buco senza fine nella perenne sensazione di galleggiare, sino alla consapevolezza adulta di quel che va al di là della personale capacità di regolare se stessi e il proprio intimo, resa nel fluttuare.

Terreno d’elezione dell’autrice, il corpo diventa nell’opera lo strumento primario di misurazione di un dolore personale, fisico – per la diagnosi infantile di reumatismo articolare acuto – e interiore, nel conflitto con l’immagine fallace del padre, trasposta in senso più ampio in una riflessione sulla storia del corpo in letteratura. Gli oggetti evocano drammi indicibili, segnali di violenze negate. Le insistenze descrittive su un orologio da tasca sonoro, sul pollo arrosto con patate della domenica – con il sotteso ricatto perpetuato da una nonna squisita e feroce, capace però di creare isole rassicuranti e necessarie – , attestano l’oppressione nella prigione dell’infanzia. Nel soffermarsi sulle incognite linguistiche, sulle espressioni d’uso comune, sui proverbi, sui modi di dire legati al corpo umano, Nimier si interroga sulla nozione di impedimento, sul significato e sull’idea del “mantenere”, in relazione al pensiero della sparizione di una persona amata.

Con La Regina del silenzio Marie Nimier compone un elogio dell’incompiutezza, della fallibilità umana, uno studio sulla paura sorda, paralizzante, sull’anarchia del ricordo, sull’oblio dell’insignificanza apparente. L’opera consegna una riflessione sullo scarto tra il tentativo di perseguire un presente personale acquietando i fantasmi del tempo e il confronto con la possibilità del disamore paterno, risolta nell’accettazione dell’assenza, della paura e del dolore come superamento dell’esperienza di “uccidersi per non tradire nessuno”.

La mano del diavolo - Robert Bryndza

Robert Bryndza, scrittore di noir inglese, autore di diverse serie di romanzi che hanno per protagoniste detective donne, in questo ultimo romanzo La mano del diavolo (Newton Compton, 2024) sceglie Kate Marshall che insieme al giovane collega Tristan, suo assistente già dal tempo dell’università, ha fondato una agenzia di investigazioni.

Kate è uscita dall’alcolismo da anni, suo figlio studia in California, per lei il lavoro è fondamentale per il suo equilibrio, che la fa mantenere in forma nuotando ogni mattina. Ma per uno strano caso mentre fa la sua quotidiana nuotata, viene presa in un gorgo e rischia di annegare. Salvata in extremis viene portata in ospedale dove incontra un’altra paziente, Jean, una donna molto provata che le racconta una storia incredibile.
Kate, intontita dal suo stato, crede quasi di sognare, ma pochi giorni dopo la donna la cerca e le chiede aiuto: undici anni prima, in un campeggio in un luogo sinistro, mentre si trovava nella tenda con il nipotino Charlie, di tre anni, sua figlia Becky e Joel il genero, accampati a pochi passi, Jean era uscita dalla tenda per pochi minuti, il tempo di scacciare un suo ex compagno alcolista che l’aveva raggiunta.
Tornata sui suoi passi aveva visto che sua figlia stava chiamando il bambino, sparito dal sacco a pelo nella tenda. Inutili le ricerche, il bambino Charlie era letteralmente scomparso.

La polizia accorsa lo aveva cercato indefessamente, ovunque, con l’aiuto dei cani, ma l’odore del bambino finiva vicino ad un fiume impetuoso che scorreva nei pressi. Dopo giorni di infruttuose ricerche il bambino disperso era stato dichiarato affogato, o comunque portato via dalla corrente.
Qualche anno dopo la madre si era uccisa, il padre invece si era risposato e aveva avuto due bambine. Di Charlie nessuno si era più occupato. Kate e Tristan si trovano di fronte a una serie di eventi molto particolari, che non sembrano avere a che fare con il destino di Charlie, ma che mettono molto a disagio Kate, forse ancora stranita dopo aver rischiato la morte in mare, certa però che il mistero non è mai stato davvero esplorato del tutto. Man mano emergono dal passato episodi inquietanti.

Un noir con tutte le caratteristiche del genere, che ci tengono attaccati alle pagine del libro, dal finale per nulla scontato.
Gli scrittori inglesi di thriller ci sanno proprio fare, mettendo in scena personaggi che si muovono nei piccoli centri rurali dell’Inghilterra, nelle cittadine sperse nel nulla, in ambienti paurosi dal punto di vista naturale, dirupi, forre, fiumi in piena, paludi insidiose, erba altissima, alberi enormi e solitari, fattorie deserte.
Insomma, un ambiente che definirei gotico, che ci riporta ad atmosfere dei grandi classici britannici, Walpole, Poe, Wallace.
Nell’esergo del romanzo, Robert Bryndza cita un verso tratto dall’opera di Marlowe, il grande elisabettiano, Edoardo II:

“Voi dovete essere superbo, audace, allegro, / risoluto , e di quando in quando, se l’occasione / lo porta, dar via anche delle pugnalate.”

In questo ultimo romanzo di Bryndza le pugnalate, anche metaforiche, non mancano.